Alla politica calabrese non piacciono le fusioni dei Comuni: i tranelli della nuova legge

Il testo già approvato all’unanimità dalla prima commissione del Consiglio regionale attende di essere discusso in aula, ma la rotta sembra decisa: mettere i bastoni tra le ruote a quelle amministrazioni che stanno pensando di unirsi sotto un unico gonfalone per ridurre le spese, aumentare le entrate e migliorare i servizi. Parla il docente Unical Francesco Aiello: «Il Nord sta cogliendo questa opportunità, facciamolo anche noi senza frapporre ostacoli».

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di Enrico De Girolamo
15 maggio 2019
15:45

Meno tasse, servizi pubblici più efficienti e pochi politici per mandare avanti la macchina amministrativa. Quella che sembra la ricetta vincente a cui nessuno rinuncerebbe, in Calabria invece fa storcere la bocca a tanti. Non piace soprattutto alla politica, che vive la prospettiva con la sindrome del tacchino a Natale: non ci pensa proprio a mettere la testa sul ceppo per farsela tagliare.
Sembra questo l’obiettivo recondito della proposta di legge regionale, la numero 244/10, a firma dei consiglieri Orlandino Greco e Franco Sergio, approvata all’unanimità il 28 febbraio scorso dalla prima commissione consiliare. Una normativa che - qualora venga varata definitivamente dal Consiglio - rischia di diventare un forte deterrente per nuove fusioni in Calabria. Ne è convinto Francesco Aiello, docente di Politica economica all’Unical e fondatore di OpenCalabria.

 


Paletti difficili da scavalcare

«Tra i paletti che possono diventare insormontabili - afferma - c’è addirittura la richiesta di un doppio quorum a cui deve essere sottoposto il referendum con il quale i cittadini sono chiamati a dire l’ultima parola sulle ipotesi di fusione».
Una norma per certi versi incomprensibile, da far credere che sia una sorta di clamorosa svista legislativa. «La proposta di legge in questione - spiega Aiello - prevede un quorum partecipativo, per cui il referendum è valido se vi partecipa almeno il 30% degli aventi diritto, ma contempla anche un secondo quorum di carattere deliberativo, per cui la fusione può avvenire se al termine delle operazioni di voto i Sì fanno segnare il 50% più 1 degli aventi diritto in ciascun Comune».

A questo punto viene da chiedersi che senso abbia fissare uno sbarramento iniziale al 30 per cento se poi viene richiesta la maggioranza assoluta degli aventi diritto perché il Sì possa vincere.
L’esempio di quanto sia paradossale questo meccanismo, lo fornisce lo stesso Aiello in un recente intervento per OpenCalabria scritto con Michele Mercuri: «Supponiamo che Cosenza, Rende e Castrolibero decidessero di fondersi e immaginiamo che il bacino elettorale sia di 90000 aventi diritto (8000 Castrolibero, 30000 Rende e 52000 Cosenza). Sempre per ipotesi, al referendum partecipano 15600 cosentini, 10000 cittadini di Rende e un solo cittadino di Castrolibero. Il quorum partecipativo sarebbe soddisfatto, ma il referendum non sarebbe ritenuto valido perché in nessuno dei tre Comuni si è avuta una partecipazione al voto tale da consentire in ciascun territorio il raggiungimento della maggioranza assoluta degli aventi diritto. Il quorum partecipativo, quindi, è inutile».

 

Studi di fattibilità obbligatori: una manna per i privati

Meno “misterioso”, invece, è l’obbligo di uno studio di fattibilità che preceda la fusione. La proposta di legge impone questo passaggio e contestualmente prevede l’istituzione di un Osservatorio regionale permanente delle fusioni che si dovrebbe occupare di elaborare lo studio. La bozza, però, non specifica cosa accade se l’Osservatorio non viene istituito nei tempi previsti.

«Due sono gli scenari possibili - continua il docente universitario –: o si blocca tutto e le richieste di fusione restano sospese sine die senza possibilità di avere tempi certi, oppure, nelle more della costituzione dell’Osservatorio, si alimenta il mercato delle consulenze offerte da agenzie esterne, che per uno studio di fattibilità di questo tipo si fanno pagare diverse decine di migliaia di euro. Un costo che aumenterebbe l’effetto deterrenza».

 

Il resto d'Italia ci crede: già 32 fusioni nel 2019

Insomma, sembra che favorire questi processi di unione non sia una priorità per il Consiglio regionale. Eppure, questa soluzione va alla grande nel resto del Paese, dove nel 2019 sono già state 32 le fusioni che hanno coinvolto oltre 70 amministrazioni comunali, soprattutto al Nord. Il motivo è principalmente utilitaristico: gli enti piccoli hanno in proporzione più spese e meno entrate, non a caso sono quelli dove la pressione fiscale sui cittadini è maggiore, circostanza che rappresenta una delle cause che favoriscono lo spopolamento dei piccoli centri a favore degli agglomerati urbani più grandi. Come se non bastasse, i servizi pubblici sono ovviamente più scarsi e meno efficienti.

 

Le dimensioni contano 

«Oggi – spiega Aiello - la capacità d’impatto delle piccole amministrazioni sul proprio territorio è minore rispetto al passato, sia per la complessità dei problemi da affrontare, come la gestione delle risorse idriche e dei rifiuti, sia sotto il profilo finanziario, a causa della progressiva diminuzione delle risorse a disposizione che dal 2010 si sono ridotte costantemente, di pari passo alla capacità di indebitamento. L’unico strumento finanziario che resta è quello della leva fiscale, che però non può essere azionata all’infinito».
Insomma, le dimensioni contano, ed è davvero difficile trovare un motivo valido per osteggiare le fusioni, che sono anche incentivate dallo Stato con un bonus finanziario che può arrivare ad un massimo di 2 milioni di euro di maggiori trasferimenti a favore della nuova municipalità, per una durata di 10 anni. Anche l’obiezione più usurata, e cioè che si pregiudicherebbe l’identità culturale delle comunità, non sembra molto fondata, perché unire diversi Comuni significa esclusivamente ottimizzare la gestione amministrativa, senza incidere sul bagaglio di tradizioni che caratterizza le singole popolazioni residenti in un determinato territorio.

 

Problema culturale

Le ragioni di questo scarso entusiasmo da parte della politica sono ovvie: meno Comuni significa meno possibilità di gestire il consenso elettorale, meno consiglieri comunali, assessori e sindaci, ognuno con il proprio orticello da coltivare.
«Il problema è principalmente culturale - conclude il docente universitario -. Occorre una maggiore consapevolezza da parte della società civile e della classe dirigente, affinché queste tematiche vengano percepite nella giusta dimensione. Ancora una volta assistiamo a un Nord capace di intercettare elementi di modernità, sfruttando questa opportunità, mentre in Calabria permane una pletora di piccoli Comuni e si discute una legge che, se approvata, rischia di affossare ulteriormente le ipotesi di fusione».


Enrico De Girolamo

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