Sandro Pertini lasciò un segno profondo nell’istituzione della presidenza della Repubblica. Per la prima volta la storia, il carattere e la credibilità di Pertini resero popolare una istituzione che si era caratterizzata per il grigiore e la sobrietà dei precedenti inquilini del colle. Questo ottuagenario con la pipa perennemente tra i denti, elegante, cocciuto e un po’ svampito, tocca i tasti giusti, riscuote immediati e unanimi consensi nell’anima più popolare del paese. Già nel discorso d’investitura si era compreso che la presidenza Pertini, la presidenza del nonno partigiano sarebbe stata diversa. «Ha costretto anche noi che non l’abbiamo votato ad applaudirlo», confesserà il segretario missino Almirante.

La popolarità della presidenza Pertini

Si presenta come l’«uomo nuovo» in un panorama politico-economico dominato dall’incertezza. Dalle prime reazioni popolari egli comprende subito che può e deve tesaurizzare al massimo questo capitale, stabilendo un contatto diretto con la gente, che aveva bisogno di un punto di riferimento al di fuori degli schemi ufficiali, lontano dallo stereotipo che aveva caratterizzato fino ad allora gli inquilini del Quirinale e soprattutto l’infelice presidenza Leone. Rifiuta di andare a vivere al Quirinale e al tramonto (come lui stesso dirà) «stacca» e torna nel suo appartamento nei pressi della Fontana di Trevi insieme alla moglie Carla, molto più giovane di lui, ex partigiana conosciuta ai tempi della Resistenza. Di sera Pertini – senza preavviso o prenotando con nomi di fantasia – spesso va a mangiare con la moglie e con gli amici in piccole trattorie situate nei pressi della Fontana di Trevi; o a Trastevere, dove una volta inviterà a pranzo addirittura re Juan Carlos di Spagna. Pertini comprende che se vuole incidere di più nel processo politico, deve utilizzare al massimo la legittimazione popolare appena conquistata per evitare di restare prigioniero nel gioco partitocratico.

Pertini comincia a coltivare dentro di sé un preciso disegno politico che porterà a compimento di lì a qualche anno: la fine del monopolio democristiano alla guida del governo e l’avvento di un socialista a Palazzo Chigi. Un primo tentativo viene compiuto poco dopo la tornata elettorale del ’79, quando il capo dello Stato – a seguito di un ennesimo fallimento di Andreotti – chiama al Quirinale Bettino Craxi per conferirgli l’incarico; una convocazione, in verità, in due fasi, perché la prima volta il segretario del Psi sale sul Colle in jeans e camicia azzurra e Pertini infuriato gli ingiunge di cambiarsi d’abito e di presentarsi in giacca e cravatta. Craxi obbedisce, ma l’incarico non produce esito positivo semplicemente perché è prematuro: il veto democristiano è immediato e insormontabile.

Tuttavia la sua presidenza fu attraversata e scossa da eventi terribili. Basti ricordare la drammatica sequenza nel solo mese di luglio 1979, segnata dall’assassinio di Giorgio Ambrosoli, liquidatore della Banca privata di Michele Sindona (11 luglio), l’uccisione del colonnello Antonio Varisco per mano delle Br (13 luglio) e del commissario Boris Giuliano a Palermo per mano mafiosa (21 luglio); un’escalation terroristica che culminerà l’anno successivo con la strage alla stazione di Bologna (83 morti e 200 feriti), per la quale saranno condannati i terroristi neri e che farà registrare ancora a lungo un tragico stillicidio di attentati e assassinii (da quello del democristiano Piersanti Mattarella in Sicilia a quello di Vittorio Bachelet, vice di Pertini al Csm, a Roma, a quello del giornalista Walter Tobagi a Milano) che costringeranno lo stesso capo dello Stato ad un continuo e mesto pellegrinaggio funerario. Nel 1981 l’ondata terroristica raggiunge l’acme con ben 791 attentati che provocano complessivamente 24 vittime, molte delle quali agenti di polizia; l’anno si conclude con il rapimento del generale americano James Lee Dozier, che verrà liberato – dopo alcune settimane – con un blitz dei Nocs, le «teste di cuoio» italiane; una liberazione che segnerà l’inizio della fase declinante dell’ondata terroristica.

Nel maggio dell’anno successivo scoppia un altro scandalo di grandi proporzioni che mette a dura prova la tenuta delle istituzioni repubblicane: quello della loggia massonica P2 di Licio Gelli, in un oscuro intreccio di affari e politica con un inquietante disegno eversivo. Pertini viene sorpreso dall’esplosione dello scandalo mentre si trova in visita in America centrale, ma al ritorno interviene alla sua maniera: usando il pugno di ferro. Caccia dallo staff del Quirinale due piduisti che aveva ereditato. E lancia un altolà inequivocabile che colpisce anche i socialisti: «Chi è nell’elenco di Gelli deve lasciare il posto che occupa, quale che sia». Un concetto ripreso con vigore nel messaggio di fine anno, quando spiega alla sua maniera: «Ogni sospetto devono allontanare dalla loro persona gli uomini politici. Non possono rimanere, non può rimanere al suo posto chi è stato indiziato in questa trappola della P2. La P2 si prefiggeva di compiere atti contro la Costituzione, contro la democrazia e contro la Repubblica. E quindi coloro che facevano parte della P2 dovranno risponderne prima di tutto davanti alla loro coscienza, dinanzi ai loro partiti e, soprattutto, dinanzi al Parlamento. Non vi può essere in questo caso alcuna comprensione, alcuna solidarietà. Ripeto quello che ho detto altre volte: qui le solidarietà personali, le solidarietà di partito, diventano complicità...». Le sue parole rimarranno inascoltate e negli anni successivi la carriera di tanti pidduisti proseguì tranquillamente in tutti i gangli dello Stato e delle professioni.

All’indomani delle elezioni politiche del 1983 si realizzava il disegno del primo governo a guida socialista della storia d’Italia. Pertini lo teneva a battesimo con palese soddisfazione, anche se il Craxi che approdava al governo era ormai scevro da qualsiasi sudditanza psicologica e politica nei confronti del «partigiano Sandro» e non esitava a ignorare le sfuriate del vecchio presidente (come quando questi pretese le dimissioni del ministro De Michelis, che aveva incontrato a Parigi il latitante Oreste Scalzone, ma ottenne solo il netto rifiuto di Craxi). Anche Pertini, d’altra parte, aveva perso molte delle speranze che aveva riposto in quelle virtù socialiste per cui aveva sacrificato tanti anni della sua giovinezza. È un fatto che da quel momento in poi sino alla conclusione del settennato anche il ruolo d’intermediazione di Pertini tra i protagonisti della politica ovvero di protettore dei governi in carica diminuirà in modo considerevole.

Pertini caratterizza la sua Presidenza trasformando il Quirinale nella casa di tutti gli italiani e aprendola alla gente. Un operazione di trasparenza. Apre le porte del palazzo ogni anno a migliaia di studenti d’ogni parte d’Italia (300-350 ogni mattina) che gli pongono quasi quotidianamente le domande più bizzarre. È una forma di dialogo con la gente comune, soprattutto con i giovani, che lo stesso Pertini aveva sperimentato come presidente della Camera. Ma nei saloni fastosi del Quirinale lo spettacolo assume aspetti mediatici molto più incisivi anche se, sovente, ripetitivi. Il presidente ricorre a battute e giochi di parole collaudati («Mi chiamo Pertini, fatemi le domande più impertinenti...», «Cos’è questo, un microfono o un aspersorio? Io non sono mica un prete...»), non perde occasione per ricordare i suoi trascorsi partigiani, la detenzione nelle carceri fasciste, le battaglie contro la fame nel mondo e soprattutto contro il terrorismo («Non armate la vostra mano, giovani, non ricorrete alla violenza perché la violenza fa risorgere nell’animo gli istinti primordiali»). Sovente eccede, deborda, ma il tono è sempre quello giusto: di un buon padre ovvero di un nonno un po’ burbero e permaloso, ma sempre onesto e schietto. Il successo popolare è assicurato in quel ruolo che un suo stretto collaboratore, Antonio Maccanico, ha definito come «una sorta di difensore civico della nazione».

Pertini ebbe anche un discreto successo nella politica internazionale. Particolarmente significato fu il viaggio di Pertini negli Stati Uniti (marzo-aprile 1982), ospite di Ronald Reagan. Anche in questo caso il feeling tra l’ex attore di Hollywood e «nonno Sandro» è immediato. Reagan, che di comunicazione s’intende, individua subito ed apprezza le qualità mediatiche di Pertini. Annoterà nel suo diario: «Oggi è arrivato Sandro Pertini. Ha 84 anni ed è un fantastico gentiluomo». Le accoglienze sono particolarmente calorose, anche perché il nostro paese ha riguadagnato molti punti negli interessi strategici americani di fronte alla nuova «guerra fredda». Alla Borsa di New York viene accolto con una vera e propria ovazione: un applauso interminabile, lungo quindici minuti. Il «New York Times» parla di Pertini spirit ed elogia il presidente «che ha dato nuova vita a quel movimento che è riuscito ad allargare il centro del potere che guida l’Italia, riuscendo nel contempo a non dare il potere ai comunisti».

Ricco e articolato è l’elenco dei suoi interventi «fuori programma»: dalla lunga presenza notturna durante i vani tentativi di salvataggio del piccolo Alfredino Rampi, caduto in un pozzo a Vermicino, vicino Roma (giugno 1981), all’infantile ma sincera esultanza, accanto ad un incredulo re Juan Carlos, allo stadio Bernabeu di Madrid, al momento della vittoria dell’Italia di Bearzot ai mondiali di calcio del 1982, fino alla visita e alla sosta al «Gemelli» di Roma dopo l’attentato a papa Wojtyla, ovvero alla veglia alla salma di Enrico Berlinguer a Padova, riportata a Roma con l’aereo di Stato. Sono solo alcuni episodi emblematici, tra i tanti, di un presidente che aveva un fiuto eccezionale nel sapersi raccordare e sintonizzare sempre con l’opinione del paese; e che ha utilizzato questo enorme capitale non tanto per attribuire – come pure si è detto – un’impronta «presidenzialistica» al suo mandato, quanto per contribuire con la sua popolarità alla stabilizzazione di un sistema politico che all’inizio del settennato era in palesi e allarmanti difficoltà.

Il «mito Pertini» è stato il frutto di un mix eccezionale e verosimilmente irripetibile: età, temperamento, comportamento, storia personale e politica, condizioni del paese. Ha detto una volta di se stesso, con la consueta franchezza: «Ho cercato di comportarmi da uomo onesto e di interpretare le aspirazioni degli onesti. Può essermi accaduto di farlo con troppa passione e insistenza, disturbando certi comportamenti delicati. A costoro chiedo scusa. Sono un gentiluomo dal brutto carattere. Secondo alcuni un presidente dovrebbe essere sordo, muto e cieco. Ma io non sono né sordo, né muto, né cieco». Al termine del suo mandato, come quasi tutti i presidenti, anche Pertini non disdegna l’idea di una possibile ricandidatura, malgrado l’età ormai veneranda. Ma l’ipotesi viene accolta con palese freddezza nei piani alti della politica. Deluso, si dimette con nove giorni di anticipo rispetto alla scadenza del mandato. Senza fanfare e squilli di tromba. A salutarlo quella mattina del 29 giugno 1985 non c’è quasi nessuno, tranne i suoi più diretti collaboratori: nessun esponente delle istituzioni – Craxi si trova ad Hammamet per il weekend e si fa rappresentare dal ministro senza portafoglio Oscar Mammì. Ma lui, il vecchio «partigiano Sandro», non si scompone più di tanto. Torna con serenità nel suo appartamento di Fontana di Trevi, dove lo aspetta la moglie Carla e dove trascorrerà gli ultimi anni di un’intensa esistenza, spesa – è uno dei non frequenti casi in cui ciò si può dire – al servizio di un’idea e del proprio paese.

Francesco Cossiga il Presidente picconatore

Sulla presidenza Pertini negli anni successivi calò una cortina di silenzio ufficiale che si protrarrà negli anni e indurrà un altro presidente, Giorgio Napolitano, a chiedersi come mai – a più di venti anni dalla sua scomparsa – «non sia stato dedicato a Pertini in Italia nemmeno un memorial come quelli che in grandi paesi democratici onorano i rappresentanti della loro storia». D’altra parte, quel congedo in sordina dal Quirinale non è casuale. È un segno, forse involontario forse no, che il mondo della politica – al di là delle lodi sperticate – considera concluso il capitolo di quel settennato scomodo e un po’ troppo ingombrante. È il momento di tornare alla «normalità». La Dc rivendicherà di nuovo il diritto a designare un proprio esponente al Quirinale e lo troverà in Francesco Cossiga, nella speranza di una navigazione più calma e senza troppe sorprese. Ma il calcolo si rivelerà fallace.

Al momento della scelta dell’ottavo presidente, nel giugno del 1985, si volle evitare il consueto valzer delle candidature, delle contrattazioni dietro le quinte e delle manovre occulte, con il rischio (già sperimentato in passato) dello sbocco di un’elezione a sorpresa, imposta dalle circostanze, che avrebbe scontentato tutti, a cominciare dalle segreterie dei partiti. Passò agevolmente la richiesta della Democrazia cristiana di avere, questa volta, un proprio rappresentante al Quirinale. Quando si trattò di dargli un nome e un cognome, il segretario del partito, Ciriaco De Mita, non ebbe dubbi. Forlani sarebbe stato uno dei candidati più naturali, ma egli – in questa come in altre situazioni precedenti – confermerà il suo crescente disimpegno. Della sua candidatura si parlò per qualche settimana poi, di fronte al distacco dell’interessato, cadde senza traumi. Scartata per il «no» comunista la candidatura Andreotti, De Mita bruciò sul tempo gli altri possibili candidati all’interno del suo partito. Propose (e impose) quella di Francesco Cossiga, dopo un «patto segreto» con l’allora segretario del Pci, Natta. Era una carta che l’esponente politico avellinese teneva in serbo perché sapeva che Cossiga, per la sua storia personale e politica, era l’unico leader Dc sul quale potevano confluire (come in realtà sarebbe avvenuto), oltre ai voti democristiani, quelli dei comunisti, dei socialisti e dei partiti laici. Era un uomo politico che aveva dato prove di affidabilità in momenti cruciali della storia politica del Paese. Inoltre, dava sufficienti garanzie – anche per i suoi studi e la sua conoscenza del diritto costituzionale – che avrebbe interpretato in modo ineccepibile e rigoroso il ruolo presidenziale. Senza sbavature o invasioni di campo. D’altronde, era stato lo stesso De Mita a convincere il riluttante Cossiga a tornare nell’agone politico e ad accettare, due anni prima, la candidatura e la nomina a presidente del Senato, malgrado l’opposizione di una parte della Dc: era un trampolino di lancio che gli avrebbe consentito il salto successivo verso il Quirinale.

Il copione viene rispettato senza sorprese. Cossiga è eletto al primo scrutinio, il 24 giugno 1985, con una maggioranza trasversale schiacciante: 752 voti su 977. Un fatto che non si ripeteva da trentanove anni, da quando cioè Enrico De Nicola venne nominato capo provvisorio dello Stato con un voto plebiscitario. Cossiga approda al Quirinale all’età di 57 anni. È il più giovane capo dello Stato repubblicano; e anche il dato anagrafico rappresenta un significativo elemento di discontinuità rispetto a Pertini, che invece era stato il presidente più anziano. Il neo-presidente era nato a Sassari il 26 luglio 1928 da famiglia di buona borghesia, in cui le radici liberal-massoniche si intrecciavano con quelle cattoliche; il padre, avvocato, era stato uno dei fondatori del Partito sardo d’azione. Studente modello, precoce negli studi (maturità classica a sedici anni, laurea in Giurisprudenza a venti, due anni dopo assistente di Diritto costituzionale all’Università di Sassari) e iscritto alla Democrazia cristiana sin dall’età di 17 anni, non poteva appartenere per ragioni anagrafiche – a differenza dei suoi predecessori – al novero dei costituenti, usciti dall’esperienza antifascista. È un aspetto che lo stesso Cossiga richiama nel discorso d’investitura davanti alle Camere: «A ragione è stato osservato che sono il primo presidente della Repubblica che non appartiene alla generazione di coloro che meritatamente si possono definire ‘padri della patria’, cioè a quegli uomini che hanno lottato per la libertà, per l’indipendenza e la democrazia dell’Italia e che hanno contribuito alla nascita della Costituzione repubblicana. Ne sono umilmente consapevole».

La politica fa parte del suo Dna. «Per me – spiegherà – la politica è stata la forma più diretta e immediata di pensare, di pensare tutto escluso la religione, di riflettere sulla storia, sulla filosofia, sullo stesso agire dell’uomo». Si considera un cattolico liberale. È nipote di Segni, cugino di Enrico Berlinguer. Caparbio, brillante, sardo fino al profondo dell’animo, deputato a trent’anni, comincia l’escalation politica nell’area della sinistra Dc. Più volte nella sua vita politica aveva bruciato le tappe. Sarà quindi il più giovane ministro degli Interni della Repubblica (nel 1976, a 48 anni, con il quinto governo Moro, confermato nei due successivi governi Andreotti) e nell’agosto del 1979 stabilirà un altro record come il più giovane presidente del Consiglio della storia repubblicana.

Eppure, quel pomeriggio del 3 luglio 1985, quando pronuncia il discorso d’investitura davanti alle Camere riunite, non è un Cossiga vigoroso, ancora fresco di energie intellettuali e fisiche, quello che parla ai «grandi elettori» e soprattutto agli italiani. È un uomo dai capelli precocemente imbiancati, dal viso segnato dalla vitiligine, provocata verosimilmente dallo stress e dalla tensione. Un uomo duramente segnato da quei cinquantacinque giorni, dal 16 marzo al 9 maggio 1978, in cui come ministro degli Interni vive in trincea, ora per ora, minuto per minuto, il dramma del sequestro di Aldo Moro e l’uccisione della scorta da parte delle brigate rosse a via Fani, fino all’epilogo del ritrovamento del cadavere del presidente della Dc nel portabagagli della Renault rossa a via Caetani, tra piazza del Gesù e le Botteghe Oscure, quando lui, sconvolto, rassegna le dimissioni dal Viminale e sparisce per un periodo di volontario esilio ritirandosi nella «sua» Sardegna insieme alla moglie Giuseppina e ai due figli Annamaria e Peppino. In realtà, quello di Moro – sacrificato dall’establishment politico sull’altare di una politica della fermezza contro il terrorismo politico inevitabile eppure insopportabilmente crudele – è un fantasma che Cossiga non riuscirà mai a rimuovere del tutto dalla propria coscienza. È una presenza incombente, che contribuisce a spiegare – nel bene e nel male – tutto il suo percorso politico (presidenziale e post-presidenziale). Confesserà più tardi: «Per un anno mi svegliavo di notte dicendomi: l’ho ucciso io». Con questo bagaglio politico ma anche con i suoi tormenti inizia il settennato presidenziale più controverso della storia della Repubblica. La fine della sua presidenza, tra l’altro, per ironia della storia coinciderà con la fine della storia della prima repubblica.