Ai due grandi sconfitti delle Politiche 2022 – Enrico Letta e Matteo Salvini – in Calabria se ne aggiunge un terzo: Carlo Calenda. L’ex ministro del Mise puntava a superare il 10% per scongiurare un Governo Meloni – da soppiantare con un Draghi bis – ma si è fermato vicino all’8%, una percentuale comunque rilevante per una forza politica, il Terzo polo, nata giusto un mese fa. A Sud del Pollino il risultato è stato però oltremodo deludente: un misero 4% e nessun parlamentare eletto.

I tre sconfitti del 25 settembre hanno questo in comune: i dati deludenti (Pd), disastrosi (Lega) o al di sotto delle aspettative (Azione-Iv) in Calabria sono ulteriormente precipitati.

Le tribolazioni del Pd

Letta, dopo aver analizzato l’entità dell’insuccesso, ha annunciato che non si ricandiderà alla segreteria del Pd. Il prossimo congresso sarà, con ogni probabilità, una sfida tra Stefano Bonaccini, Elly Schlein e Vincenzo De Luca. Letta ci arriverà come una sorta di reggente. Di fatto, l’ex premier ha già rassegnato le sue dimissioni, malgrado il Pd sia comunque riuscito a migliorare di poco il risultato di Matteo Renzi nel 2018. Ma se Letta si dimette con il 19%, in Calabria Nicola Irto, il segretario regionale che porta in dote un triste 14%, al passo indietro non ci pensa nemmeno. 

C’è anche da capirlo: guida la federazione solo da 9 mesi e le colpe della nuova caporetto non possono essere addebitate solo a lui. La fine del campo largo ha avuto un ruolo decisivo anche a queste latitudini, considerato l’exploit finale del M5S. 

Ma il problema vero è che il Pd, in questa regione, è un partito mai nato, fatalmente e involontariamente affascinato da una vocazione minoritaria che gli impedisce perfino di allinearsi ai dati nazionali più negativi. 

Il Pd calabrese è sempre sotto media: il flop di Renzi di quattro anni fa si trasformò in un altro 14%. Nel 2013, la «non sconfitta» del favoritissimo Bersani si materializzò anche per i tre punti percentuali in meno consegnati dalla Calabria (22% contro il 25 nazionale). 

L’unica volta che il Pd regionale si è omologato al resto del Paese è stato nel 2008, con lo strabiliante 33% (32% in Calabria) ottenuto da Veltroni, poi comunque sconfitto dal centrodestra di Berlusconi.

Il Pd dà il suo meglio alle Regionali (vinte con Oliverio nel 2014), cioè quando, attraverso le preferenze ai singoli candidati, il voto può essere in qualche modo controllato, orientato. Alle Politiche, dove il voto d’opinione è decisivo, i dem non funzionano. E questo malgrado il partito possa contare su centinaia di circoli in tutta la regione, migliaia di tesserati e decine e decine di sindaci e amministratori comunali. I 5 Stelle non hanno questo radicamento nel territorio, eppure hanno sbancato le urne sia nel 2018 sia, con proporzioni diverse, domenica scorsa. 

Il Pd, invece, più che un partito, è ormai una piccola ridotta, un consolidato apparato di potere ai cui vertici sta una classe dirigente in cui sembra prevalere l’istinto all’autoconservazione; è una forza politica che vanta un considerevole bacino di clientes e di tecnici d’area buoni per ogni incarico, ma che paga un’atavica debolezza in quanto a proposte e idealità da offrire agli elettori. I democratici sembrano incapaci di elaborare una propria idea di Calabria e di comunicarla in modo efficace agli elettori.

Il tafazzismo di Irto e soci si è reso evidente al momento della compilazione delle liste. E mentre i 5 stelle, nonostante le polemiche interne per l’esito delle Parlamentarie, sono riusciti a schierare in ogni collegio i propri candidati migliori – come la vincente Anna Laura Orrico a Cosenza e Riccardo Tucci a Vibo –, i big del Pd si sono messi al sicuro nei listini del plurinominale, affidando quasi tutte le sfide corpo a corpo nei maggioritari alle seconde file del partito. Che alla vittoria non ci sono andati nemmeno vicini.

Così oggi la sinistra vera è incarnata dai 5 stelle, primo partito in Calabria e in tutte le regioni del Sud. Giuseppe Conte ha infatti già rivendicato lo spazio lasciato libero dal Pd («siamo l’avamposto progressista») e bisognerà capire in che modo gli eredi del Pci elaboreranno il trauma. Le tribolazioni sono appena iniziate. Il congresso nazionale avvierà una nuova stagione di lotta tra correnti e in Calabria i tanti dirigenti locali già sgomitano per ricollocarsi nel miglior modo possibile.  Chissà se pure Irto deciderà di smettere i panni del lettiano di ferro – dopo aver vestito anche quelli di renziano doc – per salvaguardare la sua leadership in vista dei nuovi equilibri.

Lega evanescente 

Tre parlamentari appena eletti (Minasi, Loizzo e Furgiuele), un assessore e quattro consiglieri regionali (di cui uno, Mancuso, presidente dell’assemblea), un sindaco a Taurianova, svariati consiglieri comunali sparsi per la Calabria. La Lega non è mai stata così rappresentata nelle istituzioni calabresi, eppure oggi è un partito evanescente, che quasi non esiste più. Il 6% scarso di domenica dice che il progetto di Salvini è fallito, non solo tra il Pollino e lo Stretto. 

Tutto il Sud ha riservato amare sorprese al Carroccio, mandando in soffitta, forse definitivamente, la Lega nazionale. Salvini ha già detto di voler continuare a fare il segretario, ma per resistere alla fronda dei governatori del Nord dovrà probabilmente trasformare la Lega in un partito autonomista e non più sovranista. Un ritorno al passato, una sconfessione della svolta nazional-populista che, giocoforza, determinerà un progressivo arretramento dalla Calabria. 

Il Salvini post-Papeete non è più il trascinatore capace di issare la Lega sulla vetta storica del 34% delle ultime Europee. La sua immagine non tira più: al proporzionale calabrese per il Senato, malgrado il capitano fosse capolista, la Lega non ha conquistato alcun seggio. Qualcosa vorrà pur dire.

Non tutte le responsabilità sono però dell’ex ministro. Il Carroccio perde terreno anche a causa di una nomenclatura di partito assai litigiosa, che si è spaccata in tante piccole tribù che né il commissario lombardo Cristian Invernizzi, prima, né quello calabrese Giacomo Saccomanno, dopo, sono riusciti a pacificare. 

No all’Agenda Draghi 

Infine, Calenda. Il leader del Terzo polo, soprattutto qui, ha pagato la sua adesione fideistica all’Agenda Draghi. Un programma politico in cui la Calabria ha sempre recitato un ruolo più che marginale e che infatti è stato punito dagli elettori, come d’altro canto dimostrano i dati stupefacenti dei partiti che hanno rinnegato l’ultimo esecutivo di unità nazionale.

Calenda non ha poi mai spiegato la sua ricetta politica per la Calabria, non ha tarato il suo progetto sulle esigenze di questo territorio. E, se lo ha fatto, il messaggio non è arrivato a destinazione. 

Il tonfo del Terzo polo si è tuttavia materializzato al momento della formazione delle liste. Imporre come capolista Maria Elena Boschi, con buona pace del renzianissimo Ernesto Magorno, rimasto fuori dal Parlamento dopo 10 anni, è stata una mossa che ha spento i già deboli entusiasmi degli elettori. 

Senza contare lo scarso rendimento nelle urne dei (pochi) pezzi da novanta della coalizione. Calenda sulla carta poteva contare, oltre che sull’esperienza di Magorno, anche sui due sindaci (metropolitano e comunale) della città più grande della Calabria, Reggio. Carmelo Versace e Paolo Brunetti non hanno però tenuto fede alle aspettative: solo 6mila voti nel collegio che candidava l’assessore Giovanni Latella, poco più 3mila in città. 

Altrove poteva andare, ed è andata, soltanto peggio.