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Demetrio Battaglia analizza il difficile momento che attraversa il Pd e spiega come si potrebbe provare a ricostruire il consenso dopo la batosta elettorale. Il suo nome, al momento, pare il solo possibile per una soluzione unitaria che possa evitare ulteriori divisioni alla vigila dell’assemblea regionale che dovrebbe indicare la data per il congresso. Su un suo possibile impegno in prima persona Battaglia dà importanti segnale di apertura anche se indica un percorso diverso rispetto a quello seguito fin qui. Significativo il passaggio in cui afferma che i soggetti che saranno impegnati nella riorganizzazione del partito, a tutti i livelli, non dovranno candidarsi a nessun tipo di appuntamento elettorale. Anche questa una caratteristica in suo possesso considerata la decisione di non ricandidarsi in Parlamento.
Che fase sta vivendo il Pd in Calabria? Quali le ragioni di una sconfitta così pesante alle ultime elezioni?
«Il Pd in Calabria è a un bivio, non si può parlare di “fase” che può essere modifica o ribaltata come tutte le stagioni politiche ma di una epoca nuova nella quale calarsi con grande senso di realismo e lavorare per riempirla di contenuti dando una prospettiva alla società. Le ragioni della disfatta sono molteplici e si intrecciano ritardi, credibilità e responsabilità nazionali e locali. Su tutte è necessario interrogarsi, tentando di capire anche, perché l’elettorato ha premiato 5 stelle e il centrodestra, forza quest’ultima che certamente non ha mai intrecciato la sua politica con i bisogni del Meridione».
Come ripartire? C’è la possibilità di ricompattare il partito che sembra scosso da tensioni dilanianti sia a livello nazionale che locale?
«La politica impone sempre una ripartenza certo la strada è impervia e serve tanto sacrificio. Il Pd sembra l’Italia del dopoguerra. Il Paese all’epoca si rialzò, oggi il Pd ha l’obbligo di farlo perché è comunque una forza essenziale per la nazione. Io sono fiducioso, le tensioni fanno parte delle regole del gioco, diventano deleterie se sono solo frutto di egoismi e di tentativi di salvare o, acquisire o perpetuare uno spazio politico sempre e comunque. Credo che la discussione e anche le divisioni sono una crescita complessiva se originano da una voglia e da una passione civile accompagnata da una grande onestà intellettuale, discussioni e divisioni che non devono essere accompagnati da fratture umane come spesso accade in politica. E nel Pd per fortuna di passione e voglia di lavorare per il bene comune ancora c’è ne tanta. Certo, spesso si leggono comunicati o si ascoltano dichiarazioni che non servano ad animare il dibattito ma a lanciare messaggi che capiscono solo gli interessati e non sempre, disorientando comunque i cittadini. Più che spunti di discussioni sembrano telefonate tra conoscenti a mezzo stampa. Tanto vale usare il telefono che un tempo “allungava la vita”. Credo che un pezzettino di credibilità si può recuperare anche in questa direzione. Cosa si nasconde o quale interesse si vuole perseguire è il primo interrogativo che oggi, sorge spontaneo a chi legge prese di posizione che riguardano il partito. Con il risultato che sempre più si restringe il nucleo di persone che si interessano al Pd e sempre più il partito si distacca dalla società».
È possibile immaginare una candidatura unitaria? Il partito sarebbe in grado di sostenere le primarie?
«Unità è un termine impegnativo e bisogna capire bene cosa significa. Certamente non può significare che un gruppo di persone si mettono insieme per salvaguardare posizioni personali, impedire riflessioni, stoppare idee togliere agibilità politica. Così come non può significare la blindatura e la garanzia dell’esistente , rispetto all’emergere di soggetti che sono classi dirigenti “nella società” e che vogliono diventare classe dirigente “della società”, mediante l’impegno politico. Se non significa tutto questo l’unità è positiva e serve, a condizione che sia orizzontale, innovativa e capace di guardare al futuro. Il partito, comunque, è in condizioni di affrontare le primarie ed eventualmente le diverse visioni politiche se sono vere e vengono, come tali percepite dalla gente, possono anche concretizzarsi in divisioni congressuali. L’unica cosa che non può affrontare sono le divisioni artificiose o una conta muscolare per consumare vendette interne o per voglia di rivalse o ancora per restringere spazi di democrazia interna».
Il suo nome è quello che viene indicato come possibile candidato unitario in grado di mettere insieme le varie anime. Accetterebbe una richiesta di questo tipo?
«In un partito è sempre servita una assunzione di responsabilità collettiva. Oggi nel Pd è la condizione per mantenere in piede il partito. Tutti gli iscritti devono svolgere di fatto le funzioni dirigenziali e sentirsi quotidianamente segretari del partito in un clima di reciproco riconoscimento di ruoli che non sono conseguenza di un titolo da mettere prima del nome sulla carta stampata. In una comunità politica anche l’ultimo dei militanti deve avere la stessa dignità di chi occasionalmente si trova a dirigere un comune progetto politico. Per guidare un percorso politico non servono “generali” e per di più con lo stato maggiore in perenne ammutinamento, è necessario tanto sacrificio e capacità realizzativa del progetto. E’ naturale per i giornali inseguire i retroscena che accompagnano la politica, ma mi pare curioso che un partito possa stabilire prima il nome di un segretario e poi il progetto politico. Il Pd deve determinarsi sulle scelte di merito per affrontare il futuro e poi nell’ambito di una guida collettiva attribuire ruoli che dovranno essere funzionali al disegno che si vuole realizzare. Io ho deciso di non ricandidarmi al Parlamento perché ho ritenuto chiusa una esperienza politica personale per varie ragioni. La grave crisi impone a tutti di dare un contributo e io per quello che posso lo darò, fedele ad un insegnamento di un grande maestro politico degli anni 80 “dirigente politico non si diventa per decreto o per i voti elettorali o congressuali, non sono le targhette davanti la porta che individuano un dirigente politico ma le idee”. Io cercherò di esprimere qualche idea».
Esiste il rischio commissariamento? Magorno lo ha paventato e per qualcuno è una minaccia da parte di chi teme di perdere il congresso…
«Oggi non c’è la necessità di commissari, ma l’urgenza di una ripresa forte di soggettività della struttura territoriale del partito, certo qualcuno immagina sempre di guidare anche per interposta persona una forza politica per ricavarne vantaggi, è un epoca finita. Anzi io ritengo che l’intera classe dirigente che a livello regionale, provinciale o comunale andrà a guidare il Pd per tutta la durata del mandato prevista dallo statuto non potrà candidarsi a ricoprire ruoli elettorali nelle diverse istituzioni del Paese».
Non c’è molto tempo. Presto ci saranno nuovi appuntamenti elettorali. A cominciare dalle prossime regionali. Oliverio ha dato la propria disponibilità ad essere candidato nuovamente. Come risalire la china nella parte finale della legislatura?
«Oggi la Regione ha un dovere e un compito: fare uscire dai documenti e calarli nella realtà tutti i finanziamenti che è riuscita con una grandissima attività ad ottenere in questi tre anni, grazie ad un lavoro del presidente Oliverio e alla credibilità dei progetti presentati al governo nazionale. Solo così si potrà accelerare e spingere una ripresa che c’è anche in Calabria ma che non è sufficiente rispetto ai bisogni della gente».
A Reggio il Pd è ancora commissariato. E non è certo un bene in vista delle prossime comunali. Perdere anche l’ultimo capoluogo di provincia ad essere rimasto al centrosinistra sarebbe una iattura…
«A Reggio il congresso va fatto e il centrosinistra è in condizione di vincere le elezioni sotto la guida di Falcomatà che quotidianamente lavora sia pure in condizione difficilissime a dare prospettiva e dignità alla città».
Secondo lei Renzi e il renzismo sono finiti?
«Renzi ha portato un disegno innovativo nella politica con una grande spinta riformatrice. Non è riuscito a realizzarlo per diverse circostanze ma le riforme e l’apertura del partito alla società rimangono e sono idee da rilanciare. Probabilmente alcune lacune politiche e un eccesso di personalismo hanno creato le condizioni per bloccare le riforme e non innovare il partito. Ad esempio il messaggio che lanciò al referendum doveva essere completamente diverso. Non lascio Palazzo Chigi se perdo il referendum ma lascio la politica italiana se vince il sì perché ho finalmente completato un processo riformatore che sta nella palude da 40 anni e lascio per fare altro, se invece vince il no continuerò a lottare e lavorare per il Paese».