La grana Fabio Celia scoppia in testa direttamente al candidato a sindaco di Catanzaro del PD, Enzo Ciconte. La vicenda di un candidato delle sue liste, immortalato in un video intento a festeggiare un compleanno con due presunti affiliati alla ‘ndrangheta legati alle cosche degli Arena di Isola Capo Rizzuto, arrestati nell’operazione Jonny, i quali invitano apertamente a votarlo, non solo ha messo seriamente in imbarazzo sia Ciconte e i vertici del PD, ma rischia di compromettere seriamente il risultato della stessa competizione.

 

D’altronde, Celia non era un illustre sconosciuto per questo partito. Nel 2008, venne eletto finanche segretario cittadino del PD, in quota Agazio Loiero. Dunque, nessuna scusante per un partito che, evidentemente, non ha più gli anticorpi necessari per tutelarsi dai rischi di imbarcare nelle proprie file e, magari, affidare posti di rilievo, alla qualunque, anche a chi, come nel caso di Celia, vive professionalmente e politicamente al confine tra il bene e il male.

 

Le giustificazioni di Celia, ai nostri microfoni sulla sua presenza a quella festa di compleanno, oltre che, risibili ci appaiono paradossali. E tuttavia, non basta neanche l’invito a Celia da parte di Ciconte a ritirarsi dalla campagna elettorale per considerare chiuso il problema. Anche perché, infatti, se il PD, ha oggettive responsabilità di mancato controllo per questa discutibile candidatura, lo stesso dicasi per il candidato a Sindaco che, ci auguriamo, non abbia commesso altre leggerezze oltre a quella di  Celia, ormai deflagrata.  Il caso Celia, purtroppo, non può essere liquidato come un semplice incidente di percorso, ma deve essere considerato come il sintomo di una malattia che rischia ormai di rendere poco credibile un partito che parla bene e razzola male. D’altronde non era difficile  avere le giuste informazioni sul candidato in questione. Fabio Celia vive pericolosamente (si fa per dire) da tempo. E proprio per questo non è difficile comprendere certi suoi rapporti con discutibili personaggi veri o presunti esponenti della criminalità organizzata.

 

A conferma di ciò, è utile valutare i suoi rapporti professionali con il noto marchio Semeraro Mobili. Un marchio che, negli ultimi quattro lustri è stato al centro di controverse vicende fiscali e giudiziarie che hanno coinvolto le Procure di mezza Italia. La Semeraro Mobili è presente in Calabria e nella provincia di Catanzaro. Uno dei fiduciari di Giovanni Semeraro, attuale patron della Semeraro Mobili è proprio Fabio Celia.

 

Ma facciamo un passo indietro. Giovanni Semeraro rileva l’attività del suo omonimo Renato Semeraro, protagonista di un crac finanziario con truffa, con il marchio Aiazzone, marchio presente a Maida, prima di quello della Semeraro Mobili. Renato Semeraro, viene arrestato insieme Gianmauro Borsano, soci dell’Aiazzone Mobili, i quali, secondo l’accusa, avevano testato un metodo per bruciare sistematicamente fornitori e creditori ed erario creando e disfando decine di società. I “furbetti del comodino” infatti, utilizzavano un meccanismo ormai consolidato: quando una società accumulava troppi debiti con l’Erario, subentravano i prestanome.

 

La società veniva spogliata degli asset e dei marchi (la parte buona) ceduti dietro fittizi corrispettivi a nuove società in capo a Borsano e Semeraro (o loro fantocci) che così continuavano il business. Le società-pattume cariche di debiti (la parte cattiva) venivano invece intestate a stranieri, che ne trasferivano la sede legale all’estero poco prima del fallimento. E tanti saluti ai creditori, fisco compreso. È successo così alla Aiazzone spa (Israele), alla Sem srl (Estonia), alla Sicam srl (Bulgaria), alla Mete spa ( sempre Bulgaria). 

 

Stratega dell’operazione un commercialista, un certo Adami, il quale offriva servizi completi dalle sedi per far decollare le imprese all’estero e strumenti per distrarre immobili e denaro da una società da rottamare prima del fallimento. All’Aiazzone&Semeraro che brucia “paglione” anche in Calabria ecco però subentrare “micolosamente” la Semeraro Mobili. Non si tratterebbe però di quel Renato Semeraro coinvolto nel fallimento della Società biellese ma di Giovanni, imprenditore nel settore dei mobili da diversi anni.

Uomini d’affari, entrambi di origini pugliesi, con lo stesso cognome e l’interesse a rilevare, chi prima e chi poi, la medesima azienda: Aiazzone, per l’appunto. Il gruppo Aiazzone, formato da Semeraro e Borsano aveva ceduto, a luglio del 2010, la Società alla Panmedia, un’azienda di comunicazione di Torino. Quest’ultima, però, non è riuscita a far fronte alla situazione economica venutasi a creare nel giro degli  anni successivi generando, a sua volta, enormi ritardi nelle consegne dei mobili e nel pagamento degli stipendi fino all’epilogo finale: negozi chiusi, fornitori, dipendenti e clienti sul piede di guerra. Anche a Lamezia e in Calabria furono in molti a subire ritardi nelle consegne dei mobili e ad essere costretti a pagare le rate tramite la finanziaria Fiditalia. Ancora una volta diverse procure italiane interessate alla vicenda, associazioni di consumatori come il Codacons, Casa del Consumatore a raccogliere le storie e tentare i relativi risarcimenti. Ancora una volta fornitori e aziende truffate, crediti bruciati. Insomma cambiato il suonatore, la musica non era cambiata affatto, solo che il suonatore questa volta, in diverse occasioni era accompagnato da Fabio Celia, il quale garantiva sul territorio, soprattutto sulla solvibilità della Semeraro Mobili di Giovanni Semeraro. Purtroppo però, almeno secondo le indiscrezioni di imprenditori che hanno subito i mancati pagamenti e hanno scritto nero su bianco alle Procure, quando le insistenze dei creditori diventavano stringenti, ecco arrivare Fabio Celia che accompagnandosi a personaggi alquanto discutibili tentava di “convincere” i truffati a rinunciare al dovuto o ad una parte di esso. Insomma la classica soluzione alla “Calabrese” che tradotta con un vecchio detto calabrese significava col “sedere rotto e senza ciliegie”.

 

 D’altronde, nel perfetto stile dell’ideatore delle truffe della Semeraro, quell’Adami commercialista che risolveva tutto:  a Semeraro serviva un conto per far sparire i soldi della B&S prima che subentri il fallimento (quasi 500 mila euro)? Voilà, c’è quello della Luis Informatica. Che è vero che ha anche altri soci, ma come Adami si premurerà d’informare una dipendente di banca in un’intercettazione: “…è di gente mia! Di gente mia!” Già di gente mia, proprio come Fabia Celia, il quale, all’occorrenza trovava l'altra “gente mia” tra il “Cavatore e le Castella di Isola Capo Rizzuto” . Una concezione che rischia o rischiava di trasferirsi nelle stanze di Palazzo De Nobili, un rischio tutt’ora dietro l’angolo anche perché non basta l’appello di Ciconte per scongiurarne il rischio.

 

Pa. Mo.