La mattina del 12 maggio 1999, Gianni Letta saliva le scale del ministero del Tesoro a via XX Settembre e comunicava personalmente a Ciampi il «via libera» del Cavaliere alla sua elezione al Colle. Il giorno successivo le Camere lo eleggeranno con un'ampia maggioranza
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La presidenza Scalfaro ha attraversato crisi drammatiche. Tangentopoli è stata una di queste crisi. Il 1992, da questo punto di vista è l’anno di un vero e proprio dramma nazionale. Tangentopoli, rivela una fitta rete di corruzioni, grandi e piccole, nate all’ombra della partitocrazia, che doveva letteralmente distruggere un’intera classe politica e infliggere una grave ferita al sistema rappresentativo.
La tormentata presidenza Scalfaro
L’inizio dell’era Scalfaro coincide anche con la fase delle stragi di mafia. Più tardi, da quegli episodi emergerà la trama di una nuova strategia della tensione e la denuncia di una trattativa tra lo Stato e la mafia. Una querelle giudiziaria arrivata ai giorni nostri. Il 1992 è anche l’anno della peggiore crisi finanziaria subita dal paese dall’epoca della ricostruzione, una crisi che porta alla svalutazione della lira e costringe il governo Amato alla più spericolata delle operazioni fiscali, quella di una tassa sui depositi bancari dei risparmiatori e delle aziende per far fronte ad una minaccia di bancarotta che non sopporta gli indugi dei processi decisionali parlamentari. La gravità dei problemi che dovranno essere affrontati negli anni successivi con alterna fortuna, pur con qualche successo ma senza riuscire ad arrestare il trend negativo, richiederà da parte del presidente della Repubblica una nuova interpretazione del proprio ruolo e una più costante presenza nelle vicende nazionali e talvolta un più deciso intervento. Per far fronte alla grave crisi monetaria saranno assunte decisioni impopolari. In parte dal governo Amato in parte da un esecutivo semi tecnico presieduto da Carlo Azeglio Ciampi.
Intanto gli avvisi di garanzia della magistratura si moltiplicavano; dopo aver colpito figure periferiche, si indirizzavano verso i leader dei partiti, degli enti di Stato e delle istituzioni finanziarie: i sindaci di Milano Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri, l’ex ministro degli Esteri Gianni De Michelis, il costruttore Salvatore Ligresti e poi Craxi, costretto a dimettersi da segretario del Psi, Claudio Martelli ministro di Grazia e Giustizia del governo Amato, Renato Altissimo, segretario del Pli, Giorgio La Malfa del Pri, quasi tutti accusati per violazione della legge sul finanziamento dei partiti, mentre Andreotti era accusato di concorso in associazione mafiosa. Anche il ministro Franco Reviglio era costretto a dimettersi per i fondi neri dell’Eni di cui era stato presidente. Gli avvisi di garanzia non provocano solo morti politiche: nel settembre ’92 l’onorevole Sergio Moroni del Psi, sotto inchiesta per la costruzione di discariche, si suicida; la stessa sorte per il presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari, e qualche settimana dopo è la volta di Raul Gardini, grande industriale e finanziere.
Tangentopoli coinvolgerà, pur marginalmente, anche il presidente. Qualche mese dopo la decisione sul decreto Conso, scoppia l’affare Sisde (Servizio informazioni per la sicurezza democratica), la branca dei servizi segreti che si occupa della sicurezza interna. Nell’ottobre 1993 viene arrestato il prefetto Malpica, già direttore del Sisde, per le malversazioni compiute da alcuni funzionari del servizio sui fondi dell’istituto destinati al pagamento di informatori e al funzionamento delle operazioni più o meno segrete. Dopo giorni di pettegolezzi e allusioni rilanciate dalla stampa per un presunto coinvolgimento di Scalfaro sui famosi fondi neri dei servizi, la sera del 3 novembre 1993 Scalfaro pronunciava un messaggio televisivo a reti unificate in cui respingeva ogni addebito e interpretava le accuse che gli venivano rivolte come un vero e proprio complotto contro le istituzioni repubblicane, e in particolare contro la presidenza della Repubblica: «Si è tentato – esordirà Scalfaro – prima con le bombe [si riferisce qui agli attentati contro i giudici dell’antimafia, ma soprattutto a quelli avvenuti a Firenze nel maggio precedente contro la sede dei Georgofili e più tardi a Roma e a Milano], ora con il più vergognoso e ignobile degli scandali... A questo gioco al massacro io non ci sto. Io sento il dovere di non starci e di dare l’allarme. Non ci sto non per difendere la mia persona che può uscire di scena ogni momento, ma per tutelare con tutti gli organi dello Stato l’istituto costituzionale della presidenza della Repubblica». A conclusione del suo discorso Scalfaro riconfermava la sua intenzione di sciogliere le Camere e di indire elezioni anticipate, secondo le richieste che gli venivano soprattutto dall’estrema destra, ansiosa di capitalizzare la crisi dei partiti tradizionali.
Difficile fu anche il rapporto tra Oscar Luigi Scalfaro e Silvio Berlusconi, vincitore delle elezioni politiche del '94. I rapporti personali tra Scalfaro e Berlusconi, anche in questo periodo iniziale della legislatura, sono gelidi. I due personaggi sono agli antipodi, fatti apposta per non intendersi. Il cattolico, integralista, moralista Scalfaro non poteva trovare alcun punto di contatto con quel tycoon gaudente, spregiudicato, contrario a qualunque regola. «Sin dal primo colloquio, dopo le elezioni del 1994 – ricorda Scalfaro – detti a me stesso un parere decisamente negativo. Non c’è speranza di dialogo con lui, pensai, perché ti presenta come vera una cosa che egli sa benissimo essere falsa».
Fu Scalfaro a gestire la formazione del primo governo Prodi. E ancora la bicamerale per le riforme costituzionali presieduta da Massimo D’Alema. È sempre Scalfaro a dare l’incarico, proprio a D’Alema di formare il governo che successe a Romano Prodi. Massimo D’Alema. Lo vuole fortemente Cossiga, che con il suo partito è diventato l’ago della bilancia, ma lo richiede anche una situazione internazionale che, dopo gli accordi di Dayton (1995), si sta nuovamente deteriorando nei Balcani e che preluderà alla guerra del Kosovo. Se l’Italia deve parteciparvi è bene che al vertice del governo ci sia chi possa dare garanzia di riuscire a controllare eventuali proteste da sinistra. Mentre si prepara la candidatura D’Alema, forse non particolarmente gradita in questo momento allo stesso leader del Pds, nasce il «giallo» dell’offerta del premierato a Ciampi, fatta dallo stesso D’Alema anche a nome di Veltroni e quasi certamente con l’adesione di Scalfaro, se non addirittura per sua iniziativa. Ma dopo qualche giorno non se ne parla più e l’incarico passa a D’Alema il quale – dopo una missione esplorativa di pochi giorni – riceve da Scalfaro un mandato pieno a formare il nuovo governo, che ottiene la fiducia alla Camera il 22 ottobre 1998. È probabile che l’incarico a D’Alema abbia suscitato qualche perplessità in Scalfaro, da sempre dichiaratamente anticomunista, ma anche in questo caso prevarrà l’interesse nazionale, e probabilmente anche quello spirito filo-atlantico che era stato un altro dei punti fermi della sua fede politica. «Non mancai di esprimere qualche perplessità sulla soluzione della crisi. Dissi – ricordo – nasce un ‘governo settimino’. Mi parve una forzatura...».
Arriva Ciampi l’uomo dell’euro
Nella primavera del 1999 l’appuntamento istituzionale più importante fu quello per l’elezione del successore di Oscar Luigi Scalfaro, che si era detto disposto a lasciare il Quirinale con qualche settimana d’anticipo per evitare l’ingorgo istituzionale in considerazione dell’incrocio con altri appuntamenti elettorali ed istituzionali. Scartata l’ipotesi di una possibile riconferma dello stesso Scalfaro, per l’immediata quanto prevedibile e drastica opposizione del centro-destra, i principali partiti cominciarono a vagliare la rosa dei potenziali candidati. Ma alcune indicazioni emersero sin dai primi contatti.
Era arduo per gli ex democristiani rivendicare un proprio rappresentante sul Colle per la terza volta consecutiva, dopo Cossiga e Scalfaro, anche se i tentativi non mancarono e furono reiterati e pressanti; i diessini si trovavano in una condizione pressoché analoga, bloccati nelle loro ipotetiche aspirazioni dalla presenza di Massimo D’Alema, primo ex comunista alla guida di Palazzo Chigi. Quindi l’identikit del candidato ideale era in qualche modo obbligato. La scelta era ristretta ad un laico, di alto profilo morale e politico, possibilmente proveniente dall’area della maggioranza e gradito all’opposizione.
Eliminate per le ragioni suindicate, ma non senza aspri contrasti, le candidature dei «popolari» Franco Marini, Nicola Mancino e Rosa Russo Jervolino, restavano in ballo, in vista della dirittura d’arrivo, i nomi di Emma Bonino, Giuliano Amato e, soprattutto, Carlo Azeglio Ciampi.
Sull’allora ministro del Tesoro si concentravano i contatti ufficiosi tra il segretario dei Ds, Walter Veltroni, e il presidente di An, Gianfranco Fini. Ma per vincere riserve e conflitti all’interno della maggioranza di centro-sinistra e soprattutto le ambizioni del segretario del Ppi, Marini, era D’Alema a dover prendere risolutamente in mano la questione per risolverla con un confronto a quattr’occhi con Berlusconi. Risultato: la mattina del 12 maggio, Gianni Letta saliva le scale del ministero del Tesoro a via XX Settembre e comunicava personalmente a Ciampi il «via libera» del Cavaliere con queste parole: «Caro presidente, Berlusconi ha sempre chiesto che al Quirinale andasse un uomo al di sopra delle parti, un garante vero. Lei, per sua stessa natura, corrisponde perfettamente a questo ritratto».
Ciampi incassa sornione, ma evidentemente soddisfatto, questa investitura. Ma fino all’ultimo non pensa di essere eletto. Anzi è talmente scettico che rivelerà: «Avevo preparato una lettera di rinuncia non fossi stato eletto al primo scutinio».
Invece, il giorno successivo le Camere lo eleggeranno con un voto ad ampia maggioranza decimo presidente della Repubblica. Otterrà infatti 707 voti su 1010 (il 71,4%), provenienti sia dal centro-destra che dal centro-sinistra; contrari soltanto la Lega e Rifondazione comunista. Era la terza volta nella storia repubblicana (dopo De Nicola e Cossiga) che un capo dello Stato veniva eletto in modo così rapido e indolore. Ma era la prima volta che veniva eletta una personalità che – pur avendo occupato incarichi prestigiosi – non aveva dietro di sé una carriera politica e quindi alcun partito che lo appoggiasse.
Ma perché i principali schieramenti avevano deciso di convogliare i rispettivi voti proprio sull’ex banchiere e allora ministro del Tesoro? Una prima ragione è probabilmente legata alla figura del suo predecessore Scalfaro, che aveva assunto un ruolo molto attivo, ma controverso, nel gioco politico durante il settennato. Dopo una stagione contrassegnata dai veleni tra i partiti, in cui il Quirinale era finito spesso nella mischia, c’era la volontà comune di un periodo di tregua per consentire ai principali attori del confronto politico di riorganizzare le rispettive forze in vista delle sfide successive. Ciampi, per il suo passato di grand commis dello Stato, di personalità sostanzialmente al di sopra delle parti ed estranea al mondo politico, era l’uomo ideale per far uscire il paese dal tunnel di una crisi profonda in cui i nodi politico-istituzionali si intrecciavano con quelli economici mentre sul fronte internazionale imperversava, ad un tiro di schioppo dalle nostre frontiere, la guerra dichiarata alla Serbia dalla Nato, che vedeva il governo D’Alema fortemente impegnato a sostegno dell’utilizzazione delle nostre basi da parte degli alleati e della partecipazione dell’aviazione italiana alla guerra.
Inoltre c’era la speranza che Ciampi potesse dare un utile contributo alla ripresa e, se possibile, imprimere un’accelerazione del sistema maggioritario che – proprio alla vigilia dell’elezione del successore di Scalfaro – aveva subito un’imprevista quanto pesante battuta d’arresto con la bocciatura del referendum antiproporzionale, che non aveva superato lo scoglio del quorum per soli duecentomila voti. In aggiunta, dopo il fallimento nel 1998 della terza Bicamerale della storia repubblicana, presieduta da D’Alema, a seguito del repentino retromarcia di Berlusconi, le ipotesi di riforma istituzionale erano ancora tutte sul tappeto. C’era dunque bisogno di un uomo in grado di riannodare il filo del dialogo tra le forze politiche e di riprendere il cammino interrotto, e Ciampi poteva essere il traghettatore verso quella «democrazia bipolare» che ancora non si vedeva all’orizzonte dopo la fine della Prima Repubblica e l’avvio dell’incerta fase di transizione.
Come se non bastasse, si riconosceva al neo-presidente una particolare autorevolezza a livello europeo. Principale fautore dell’ingresso immediato del nostro paese nell’euro, nelle sue funzioni di super-ministro dell’Economia del governo Prodi Ciampi aveva acquisito speciali benemerenze e godeva di stima e di appoggi autorevoli presso le principali cancellerie dei paesi dell’Unione europea.