Quando nel Pd si menano, si menano forte. E non c’è elezione che tenga. Anzi, più si avvicinano a grandi passi gli appuntamenti elettorali, maggiore è la violenza dei colpi. L’ultima zuffa a livello regionale è stata innescata dall’appello all’unità in vista del 4 marzo, lanciato dai segretari provinciali del Partito democratico Luigi Guglielmelli (Cosenza), Gino Murgi (Crotone), Gianluca Cuda (Catanzaro), Vincenzo Insardà (Vibo Valentia) e Giovanni Puccio (Reggio).


Niente di nuovo, il solito decalogo all’insegna del “volemose bene” che inneggia alla condivisione degli obiettivi politici e invita al sostegno incondizionato dei candidati scelti dal Nazareno. Sarebbe passato quasi inosservato, se a un certo punto nel documento non avessero fatto riferimento a un partito «sabotato dall’interno». Parole che hanno incendiato in un lampo la coda di paglia di chi si è sentito chiamato in causa, perché da tempo si oppone (senza il minimo risultato) ai vertici regionali e locali del Pd.

 

 

Così, alcuni dei presunti “sabotatori” non se la sono tenuta e hanno dato sfogo a tutta la loro rabbia, con buona pace dell’unità puntualmente e inutilmente invocata. Demetrio Naccari Carlizzi, Fabio Guerriero, Clelio Gelsomino, Stefano Soriano e Marco Vallone hanno messo nero su bianco una replica infuocata, infarcita di citazioni, nella quale paragonano il segretario regionale Ernesto Magorno a un generale romano responsabile di una storica disfatta. Riferendosi alla sua candidatura, fanno notare i “sabotatori”, «è come se Augusto (leggi Renzi, ndr) avesse riaffidato le legioni romane a Publio Quintilio Varo (leggi Magorno, ndr) dopo la disfatta di Teutoburgo, nella quale perse tre legioni e tre ali di cavalleria».

 

Botte pesanti, che in altri contesti e in altri tempi avrebbero determinato immediate purghe di massa. Ma nel Pd del nuovo secolo, dove tutti sono contro tutti, e il partito è parcellizzato in feudi e aree di influenza, alle minoranze interne spesso non resta che abbaiare alla luna. Sebbene un dissenso spinto sino a questo punto di non ritorno dovrebbe indurre chi lo esprime a prendere finalmente atto che quello in cui milita, con tutta probabilità, non è il suo partito. Ma tant'è.
«I conti li faremo dopo le elezioni», concludono i dissidenti del Pd calabrese, lasciando intendere che all’orizzonte si prospetta un’epocale batosta che permetterà finalmente di chiudere la stalla, desolatamente vuota però. Perché probabilmente gli elettori-buoi saranno ormai scappati da tempo.