La partita sull’Autonomia differenziata si giocherà soprattutto davanti alla Corte costituzionale. Con tempi tutti da definire, così come parte dei giudici della Consulta. Terreno tecnico e politico, visto che alla Corte manca il quindicesimo membro, da oltre 10 mesi, e a fine dicembre ne verranno meno altri tre. Delle nuove nomine deve (e dovrà) occuparsi il Parlamento ma, almeno fino a ora, il governo non ha ritenuto la questione una priorità. 

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Consulta zoppa, dunque, in vista di un autunno caldissimo: non solo l’Autonomia differenziata, in agenda ci sono anche adozioni e fecondazione assistita, decreto Caivano, fine vita. La battaglia sulla legge Calderoli si gioca anche di strategia. Il 20 dicembre lasceranno la Corte anche il presidente Augusto Barbera e i vicepresidenti Franco Modugno e Giulio Prosperetti. Saranno 4, dunque, i giudici da sostituire, con tutte le conseguenze (e gli equilibrismi politici) del caso. La spartizione è dietro l’angolo e le scelte possono pesare e non poco sul futuro della riforma.

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Prima dei nomi, però, c’è l’approccio: nei prossimi giorni la Consulta dovrà decidere quanto trattare in udienza i ricorsi regionali con cui si chiede l’incostituzionalità, totale o parziale, della legge sull’autonomia differenziata. È La Stampa a individuare tre possibili scenari: novembre; fine febbraio; giugno/luglio. Situazioni diverse che vedranno anche possibili composizioni diverse della Corte. 

Il primo scenario: la Consulta decide a novembre

A novembre a decidere sarebbero gli attuali 14 giudici, ammesso che il Parlamento non abbia eletto nel frattempo il quindicesimo (prevedibili boatos parlano di un profilo vicino al centrodestra): le sentenze, in questo caso, arriverebbero entro dicembre. Cioè in tempo utile per una messa a punto dei quesiti referendari nel caso in cui venga dichiarata l’incostituzionalità parziale della riforma.

Se i ricorsi fossero respinti, la partita si sposterebbe interamente sul referendum. Se invece la Corte accogliesse i ricorsi, soprattutto quello della Puglia, che è il più radicale e “accusa” il governo di aver travisato la Costituzione, la legge potrebbe cadere interamente per un vizio formale e sarebbe cancellata.  

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Nel caso, invece, di incostituzionalità parziale della legge Calderoli, per quella parte cadrebbe il referendum, che rimarrebbe in piedi per il resto: si farebbe comunque ricorso alla volontà popolare.

Secondo scenario: la Consulta azzoppata al voto

Lo stesso accadrebbe nel secondo scenario, cioè se i ricorsi fossero trattati dopo l’ammissibilità del referendum ma prima del voto, a fine febbraio. Rispetto al precedente scenario, però, si avrebbe una maggiore e prolungata incertezza sia dei tempi sia giuridica e, se la sentenza sul ricorso fosse di accoglimento totale, la macchina referendaria avrebbe lavorato inutilmente. Inoltre, è probabile che per quella data il collegio non sia stato ancora integrato rispetto alle tre uscite del 20 dicembre (ci sono la sessione di bilancio e le vacanze di Natale).

La Stampa considera concreto il rischio che fino a marzo 2025 i giudici restino in 11, massimo 12 - cioè al limite di quanto consentito dalla legge per lavorare - e che con questa “formazione” andrebbero ad affrontare sia l’ammissibilità dei quesiti sia i ricorsi.

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Terzo scenario: si decide sui ricorsi delle Regioni dopo il referendum

Terzo scenario: l’udienza sui ricorsi regionali viene fissata dopo il voto, a giugno/luglio. Se al referendum hanno vinto i sì all’abrogazione totale, cessa la materia del contendere e la Corte deve solo verificare che, nel frattempo, la legge non abbia avuto applicazione. Se l’abrogazione referendaria è stata parziale, la cessazione della materia del contendere sarà anch’essa parziale (fatta salva, per la parte abrogata, la verifica che nelle more non abbia avuto applicazione). Se, al contrario, la legge uscisse indenne dal referendum, la palla tornerebbe alla Corte.

In questo ultimo scenario, la Consulta sarebbe nuovamente a ranghi completi con i nuovi innesti decisi dal centrodestra in Parlamento. È la situazione che preoccupa di più l’opposizione che teme prese di posizione dettate dalla vicinanza alla politica su un tema che rischia di spaccare il Paese.