Indubbiamente la presidenza Gronchi si caratterizzò per l’ossessione costante della ricerca dell’autonomia, in considerazione delle dinamiche che ne avevano determinato l’elezione. Una ossessione che stava alla base di una sua profonda convinzione e che aveva affidato a Indro Montanelli nel corso di una intervista che il Presidente aveva rilasciato al grande giornalista: «Sono contento del modo in cui questa investitura è venuta, voglio dire dalla quasi unanimità che mi rende indipendente da ogni partito e fazione. Tolga dai seicentocinquantotto suffragi che mi sono piovuti addosso quelli della destra: risulto eletto ugualmente con largo margine. Ne tolga quelli delle sinistre e le conseguenze non cambiano. Ciò mi consentirà di essere il capo dello Stato davvero e non il fiduciario di una parte».

Nel dopoguerra Gronchi si pose come potenziale successore, permanente antagonista, di De Gasperi. Era l’uomo della «sinistra sociale» democristiana legata a La Pira e – in sintonia con Dossetti – non nascondeva le sue perplessità per la rottura della coalizione tripartita e ancor di più per l’adesione dell’Italia al Patto atlantico, rivendicando un ruolo per il nostro paese più autonomo e meno omologato al rigoroso occidentalismo voluto dagli Stati Uniti.

Insomma veniva considerato un cattolico di sinistra. Aperto soprattutto ai socialisti. Inoltre Gronchi, nel corso della sua presidenza, è sempre stato tentato dall’attuare una linea interventista nella formazione dei governi. Ciò gli provocherà non poche tensioni con la linea della DC e della maggioranza.

Gli interventi presidenziali non mancano di suscitare reazioni e polemiche, talvolta anche eccessive. Oltre all’inimicizia di Scelba, il nuovo capo dello Stato poteva contare sulla forte avversione di Saragat, che l’aveva battezzato «il Peron di Pontedera», mentre Nenni – per ovvie ragioni – plaudiva alla «linea Gronchi» e nel suo diario scriverà che l’elezione era stata in larga misura merito suo; La Malfa si mostra più cauto, escludendo comunque il rischio di una deriva presidenzialista.

C’è da segnalare comunque l’impegno verso il rafforzamento degli organi costituzionali. Non va sottovalutato l’impulso che Gronchi dà all’attuazione delle norme costituzionali. Promuove nel 1956 il varo definitivo della Corte costituzionale e vara il percorso per l’istituzione di altri organi costituzionali. Tutte iniziative che andavano nel segno di quel giudizio favorevole a Gronchi interpretato da Piero Calamandrei sotto la formula di un capo dello Stato viva vox Constitutionis.

A segnare definitivamente e negativamente il carattere del suo settennato, fu indubbiamente la dinamica ancora oggi poco chiara della nascita e la crisi del governo Tambroni nella primavera-estate del 1960. Il clima in cui esso si determina è quello di un rinnovato tentativo della Democrazia cristiana e del Partito socialista di arrivare finalmente ad una collaborazione governativa. Una serie di fallimenti nella risoluzione della crisi di governo innescata della fine dell’esecutivo Segni, induce Gronchi a chiamare Tambroni per la formazione del governo.

Tambroni, ministro degli Interni di vari governi, uomo ambizioso con il chiodo fisso per i dossier, personaggio di cui si fida ciecamente. Tutto lasciava intravedere che ci sarebbe stata da parte di Tambroni un’apertura al fronte socialista. Invece, nel momento della verità, Tambroni pronuncia in Parlamento un discorso di tutt’altro tenore, intriso di richiami all’ordine e di patriottismo populistico, che – non a caso – ottiene soltanto il voto favorevole e determinante dei deputati missini. Un tale atteggiamento costringe la Dc a richiamarlo all’ordine. Tambroni si dimette, ma la crisi non si sblocca. Quindi Gronchi riconvoca Tambroni al Quirinale, respinge le dimissioni e lo invita a presentarsi davanti al Senato per il voto di fiducia. È una prova di forza che probabilmente mira a suscitare anzitutto un chiarimento all’interno della Dc. Ma il partito di maggioranza, messo alle strette, vota a favore della fiducia insieme al Msi. Nasce quello che sarà definito un governo «palatino», cioè di palazzo, che suscita aspre reazioni politiche e sanguinosi moti di piazza.

I missini approfittano dello spazio che inopinatamente hanno conquistato; chiedono ed ottengono di far svolgere a Genova, cioè in una delle città più «rosse» d’Italia, medaglia d’oro della Resistenza, il loro congresso. Si scatena un’ondata di violenza e di scontri tra le forze dell’ordine e i manifestanti in numerose città (Reggio Emilia, Catania, Licata), con un bilancio di nove morti e decine di feriti. Qualcuno – come Saragat – accredita il timore di una guerra civile. Ciò induce l’establishment dei partiti ad intervenire e a ricompattarsi. Tambroni è costretto a passare la mano a Fanfani, che riesce a costituire un governo; non è ancora il centro-sinistra, ma un monocolore di «pacificazione nazionale» appoggiato da tutti i partiti di centro, compresi i liberali, con l’astensione dei socialisti e dei monarchici. Gronchi esce a malpartito dalla vicenda Tambroni.

L’elezione di Antonio Segni

Il quadro politico che portò all’elezione del successore di Gronchi al Quirinale era determinato nel contesto di un radicale mutamento sociale e politico di quegli anni. E anche da una profondo crisi identitaria della Dc. Erano gli anni in cui si diede vita alla collaborazione di governo con i Socialisti. Una decisione che apri la strada ad un forte e lacerante dibattito all’interno del partito di maggioranza relativa. Secondo Ugo De Siervo, «l’elezione di Antonio Segni è stata unanimemente valutata sul piano politico come una garanzia offerta da Moro, dopo il congresso democristiano di Napoli, alle componenti moderate della Dc».

Garanzia che il primo governo di centro-sinistra, a cui Fanfani aveva dato vita nel febbraio 1962, si sarebbe mantenuto nei limiti di una politica moderatamente riformista e avrebbe trovato opportuni temperamenti nell’azione di un uomo considerato un moderato e in qualche caso anche un conservatore.Anni difficili ma non sterili, li definirà Amintore Fanfani, quelli della seconda legislatura. Anni difficili, che tuttavia riusciranno a fare avanzare faticosamente una difficile alleanza, ma anche anni in cui il partito che era stato di De Gasperi iniziava un processo di destrutturazione destinato a durare a lungo e a sfociare in una crisi irreversibile di cui uno degli elementi più vistosi sarà la scomparsa, in parte per motivi anagrafici, in parte per ragioni di incompatibilità, di quella prima generazione di notabili che nelle fasi di maggiore crisi del partito erano riusciti a tenerlo insieme e a conservargli quella legittimazione a guidare il paese che si era affermata nella fase del dopoguerra e della prima ricostruzione. Di tutto ciò va tenuto conto per comprendere le vicende di quegli anni e il ruolo che vi svolgerà Segni, che a quella generazione apparteneva di diritto, non solo per ragioni anagrafiche ma anche per formazione, convinzioni politiche e religiose, senso del dovere.

Da queste intese e dal nuovo clima che si era instaurato nasce la candidatura di Segni al Quirinale, che tuttavia passa solo al nono scrutinio, con 443 voti su 842 e con quelli decisivi del Msi e dei monarchici. A contrastare l’elezione di Segni ci sono da una parte Gronchi, che punta alla conferma (con l’appoggio di Mattei), e dall’altra la candidatura di Saragat, per il quale votano socialisti, socialdemocratici e comunisti. È Moro a volere Segni presidente della Repubblica e a una lettera di Saragat, inviata dopo il terzo scrutinio e che proponeva il proprio ritiro se Segni avesse fatto altrettanto, risponde con un rifiuto. Per Moro l’elezione di Segni è la garanzia offerta ai nemici del centro-sinistra, ma a spiegare la scelta del segretario del partito ci sono anche la reciproca simpatia e l’«intesa umana e culturale» che si era instaurata tra i due personaggi, nonostante la differenza delle rispettive posizioni politiche.

Dunque, l’elezione del quarto capo dello Stato assumeva un significato politico del tutto diverso o addirittura opposto ai precedenti. Se infatti la scelta di Einaudi era stata dettata dal desiderio di esprimere l’unità della maggioranza centrista allora al governo, quella di Segni nasceva da un impulso contrario: era stata imposta dalla maggioranza dorotea della Dc in contrapposizione e come contrappeso al nascente centro-sinistra.

Segni, in altre parole, avrebbe dovuto essere il garante non solo delle forze moderate del suo partito, ma anche di quelle posizioni ecclesiastiche e imprenditoriali preoccupate per le prospettive del futuro incontro tra cattolici e socialisti. Un’azione di freno che Segni non mancherà di esercitare nel biennio in cui resterà al Quirinale, anche se egli agirà non per assecondare i disegni di una parte politica, ma soprattutto per coerenza con le proprie convinzioni personali e mai perdendo di vista il suo ruolo di garante dell’unità nazionale. Questo elemento di cesura rispetto al settennato di Gronchi, carico di aspre polemiche sulle iniziative autonome del Colle, soprattutto in occasione del «caso Tambroni», figura non a caso sin dal discorso d’insediamento di Segni (11 maggio 1962), in cui il neo-presidente afferma con chiarezza: «Non spetta a me determinare gli indirizzi politici nella vita dello Stato, prerogativa questa del governo della Repubblica e massimamente di questo libero Parlamento... Ma a me, come capo dello Stato, incombe, nell’esercizio delle mie funzioni, il dovere di tutelare l’osservanza della Costituzione e di operare perché sia garantita l’unità civile e morale della nazione».

Segni, “il bolscevico bianco”

Una curiosità. Il Presidente Segni, nel corso della sua lunga carriera di Governo fu soprannominato “il bolscevico bianco”. Un grande interesse per i problemi dell’agricoltura lo caratterizzò durante tutta la sua carriera politica. Si definiva «agricoltore e figlio di agricoltori», era proprietario terriero, ma prima come sottosegretario e poi come ministro dell’Agricoltura si batterà sempre per una necessaria limitazione del latifondo, che lo avvicinerà ad Einaudi e che gli attirerà anche le critiche di don Luigi Sturzoper la sua presunta «aprioristica» ostilità verso la proprietà fondiaria.

Già nel 1944 il ministro dell’Agricoltura del governo Bonomi, il comunista Fausto Gullo, con un decreto confermato l’anno successivo, aveva disposto una prima distribuzione di terre incolte. Nel settembre ’46, da ministro dell’Agricoltura del secondo governo De Gasperi, Segni varava un decreto che garantiva una maggiore durata – in alcuni casi fino a venti anni – dell’assegnazione di tali terre. Nel ’47, in occasione di un dibattito sull’articolo 41 della Costituzione, Segni – eletto membro della Costituente – in una lettera al gruppo parlamentare della Dc si dichiarava d’accordo sul principio della limitazione della proprietà terriera «perché – affermava – vedo nella grande proprietà una potenza dannosa politicamente e socialmente».

Ma quello che gli varrà la definizione di «bolscevico bianco» sarà il contributo di primaria importanza alla riforma agraria nonostante che per essa avesse dovuto rinunciare ad una parte delle sue proprietà, compresetra quelle oggetto della riforma. Inoltre in materia di patti agrari, che regolavano i rapporti tra il padrone e il conduttore del fondo – un tema che sembrò irrisolvibile in quegli anni per l’arroccamento dei proprietari e dei partiti che li rappresentavano –, propose una delle soluzioni più radicali, che accoglieva quasi tutte le richieste della sinistra contadina, ma che tuttavia cadrà per l’opposizione dei conservatori. Tuttavia nonostante la fama di rivoluzionario che si fece per queste sue posizioni, Segni era sostanzialmente un moderato-conservatore (lo dimostrerà da presidente del Consiglio e da presidente della Repubblica).

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