I due insieme incarnano non solo un progetto politico, ma un’ideologia che celebra la distruzione come creazione e riduce l’uomo a strumento
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Trump e Musk
C’è qualcosa di epico, quasi di mitologico, nel gesto con cui Donald Trump ed Elon Musk si sono stretti la mano nella Rotonda del Campidoglio lo scorso 20 gennaio 2025. L’anziano presidente e il miliardario visionario, come due titani, sembrano voler sollevare il destino del mondo sulle proprie spalle. Eppure, dietro l’illusione di una promessa di progresso e conquista, si cela una realtà ben diversa: l’apoteosi della disuguaglianza, la celebrazione di un capitalismo che ha perso persino la maschera del pudore e che si è reso conto di poter fare a meno delle democrazia.
Trump, con la sua retorica roboante, ha evocato l’immagine degli astronauti americani che piantano la bandiera a stelle e strisce su Marte. Non c’è nulla di casuale in questa narrazione, il sogno di Marte non è altro che la trasposizione cosmica del sogno americano, quel destino manifesto che per secoli ha giustificato l’espansione, la conquista, la sopraffazione. Ma questa volta non è la frontiera terrestre a essere colonizzata, bensì quella spaziale. Una frontiera che, lungi dall’essere democratica, appartiene a pochi eletti: i Musk, i Bezos, i Gates, che con le loro fortune decidono i confini del possibile per miliardi di esseri umani.
Musk, in piedi accanto a Trump, prima ha sorriso e alzato i pugni in aria, poi si è lasciato andare ad un gesto che ha ricordato il saluto romano. L’alterata teatralità di quel tragico movimento è il simbolo perfetto di questa nuova età dell’oligarchia tecnologica. Non un saluto al popolo, ma un grido nostalgico di vittoria, una celebrazione di sé stesso. E mentre la folla applaudiva, rapita dall’idea di un futuro dorato, chi si chiedeva quale prezzo avrebbe pagato la Terra?
Dietro le luci di questa nuova “età dell’oro” si nasconde un’ombra cupa. Trump promette di abbattere regolamenti e spese pubbliche, di liberare il capitalismo dai vincoli che ancora lo tengono ancorato a un’idea di giustizia sociale. Musk, dal canto suo, incarna una visione della tecnologia che non salva, ma separa: una tecnologia che eleva pochi eletti, lasciando il resto dell’umanità a dibattersi in un pianeta sempre più ostile.
Non è un caso che accanto a Musk siedano Sundar Pichai e Mark Zuckerberg, gli altri profeti di questa nuova religione tecnocratica. Una religione che non promette redenzione, ma potere. Che non chiede fede, ma denaro. E intanto, chiunque osi opporsi a questa narrazione viene relegato ai margini, etichettato come nostalgico, apocalittico, nemico del progresso.
Ma quale progresso? Quale futuro può costruire un mondo che guarda alle stelle e ignora le ferite della Terra? Se Marte diventa il sogno, è perché la realtà è un incubo: guerre, cambiamenti climatici, disuguaglianze sempre più profonde. Eppure, invece di affrontare queste sfide, preferiamo fuggire. Fuggire verso un pianeta che, nella sua desolazione, è l’immagine perfetta del nostro vuoto interiore.
E allora, come non pensare a quella parabola del capitalismo che, come un cancro, consuma il suo ospite fino a distruggerlo? Wolfgang Streeck ha parlato di una “iperglobalizzazione” che soffoca la democrazia, e Dani Rodrik ha evocato il trilemma tra Stato nazionale, democrazia e globalizzazione. Ma qui, davanti agli occhi di tutti, si compie una tragedia ancora più grande: la dissoluzione dell’umano.
Trump e Musk incarnano non solo un progetto politico, ma un’ideologia che celebra la distruzione come creazione e riduce l’uomo a strumento. È un’ideologia che deforma il linguaggio, trasforma i sogni in incubi, rende invisibili i più deboli.
Non sarà un gesto eroico o una mano tesa a salvarci, né una bandiera piantata su un suolo sterile. Il destino non è scritto tra le stelle, ma nelle crepe della Terra. Non è nelle fughe che troveremo risposte, ma nel ritorno. Il futuro non si costruirà per noi, e di certo non lo faranno loro. Se c’è una battaglia da combattere, sarà innanzitutto quella contro la nostra stessa indifferenza.