Il 25 luglio scorso - in tema di due diligence ai fini della sostenibilità - è entrata in vigore la direttiva 2024/1760/UE (Corporate Sustainability Due Diligence Directive - CSDDD), che impone alle imprese europee (con determinati requisiti dimensionali, compresi partner commerciali e filiali nei Paesi extraeuropei) di rispettare rigorosi standard ambientali e sui diritti umani. Al di là delle ambizioni extraterritoriali della direttiva, mi ha sorpreso l’entusiasmo manifestato dagli addetti ai lavori, in Italia e in altri Paesi europei, sulle potenzialità applicative del provvedimento. Uno degli aspetti di maggiore criticità della CSDDD, infatti, è proprio la sua concreta implementazione nei Paesi extra UE, soprattutto quelli in via di sviluppo, connotati da alti livelli di corruzione.

Ad esempio, in Ghana, l’estensione degli obblighi introdotti dalla CSDDD alle multinazionali di diritto europeo - operanti nel settore dell’estrazione, commercio ed esportazione di oro, diamanti, bauxite e manganese - e alle loro filiali o partner commerciali di diritto ghanese, appare estremamente improbabile. La corruzione dilagante, che coinvolge, tra gli altri, importanti funzionari governativi, permea l’intera catena di approvvigionamento di tali materie prime.

Nonostante gli sforzi del governo ghanese di contrastare l'estrazione illegale di oro, la partecipazione attiva di funzionari governativi a dinamiche corruttive ha favorito una generale impunità che erode il rapporto fiduciario tra cittadini e Stato. Nei principali distretti auriferi del Paese, il quadro generale si complica ulteriormente, per la connivenza delle autorità tradizionali (i capi delle varie tribù locali), che accettano tangenti o doni dalle organizzazioni criminali, in cambio del placet ad avviare attività estrattive illegali sui terreni.

Sebbene il governo ghanese abbia, nel tempo, tentato di arginare l’estrazione illegale di oro, i casi di funzionari di polizia che riscuotono tangenti (o che non intervengono per timore di ripercussioni dei loro superiori) sono in continuo aumento. A seguito di alcune recenti interviste ai rappresentanti di ONG e del governo locale nei principali distretti auriferi del Paese, è emersa una maggiore fiducia della comunità nei leader tradizionali, capaci di far rispettare l'ordine, piuttosto che nelle istituzioni. L'incremento delle galamsey (miniere d’oro illegali) è stato attribuito in parte alla crescente partecipazione delle élite politiche nel business illegale dell’oro. Anche le affiliazioni politiche giocano un ruolo cruciale: permettere l’avvio di attività estrattive illegali (o rilasciare concessioni minerarie ad hoc) significa acquisire nuovi sostenitori e finanziatori del partito, ottenendo il successo elettorale. Peraltro, i ritardi (spesso pianificati) nel processo di concessione delle licenze di estrazione, commercio ed esportazione dell’oro incentivano le attività di lobbying e il pagamento di tangenti.

Operazioni congiunte di polizia ed esercito condotte di recente in Ghana, come Vanguard o Galamstop, finalizzate a porre fine al fenomeno delle galamsey, sono state boicottate proprio in ragione del fenomeno corruttivo a tutti i livelli istituzionali. Al riguardo, un membro dell'Assemblea ha riferito che “alcuni corrotti e influenti politici hanno consentito a gruppi criminali di avviare galamsey in vaste aree, causando deforestazioni e inquinando terreni, fiumi e laghi. Quegli stessi politici corrotti hanno poi pubblicamente criticato i minatori illegali, promettendo ai loro elettori nuove iniziative contro le galamsey”.

In diverse zone aurifere del Ghana, un numero considerevole di minatori è membro del comitato minerario distrettuale, mantiene affiliazioni con i partiti politici, ricoprendo posizioni dirigenziali. Al riguardo, un minatore e un politico locale operanti nel distretto di Bole hanno riferito che “il coinvolgimento di tali minatori nei processi decisionali a livello politico, a volte ostacola gli interventi delle forze di polizia, influenzandoli con incentivi o favori. Il capo della polizia locale, un assessore e il capo dell'esecutivo distrettuale si sono classificati, rispettivamente, al terzo, quarto e quinto posto nelle ultime elezioni del distretto minerario”.

Esiste, quindi, una percezione di corruzione e di generale inefficienza nel governo nazionale e nei suoi apparati amministrativi e di controllo. In molte zone del Ghana, i leaders tradizionali sono i custodi della terra e controllano l'accesso e l'uso dei terreni della loro giurisdizione. Pertanto, i minatori illegali negoziano direttamente con i capi, i clan e le “pelli” (famiglie che possiedono la terra). Quando vengono trovate tracce di oro in un sito, lo scopritore informa il leader tradizionale con giurisdizione su quelle terre e acquisisce il diritto di sfruttare i pozzi; in genere, i leaders tradizionali ricevono dai minatori illegali - spesso stranieri (cinesi, indiani, russi, burkinabé, nigeriani, ivoriani, ecc.) che operano mediante prestanome ghanesi - una percentuale sull’oro estratto a fronte del “permesso” di operare nelle loro terre. Circa il 39% (ma le percentuali possono variare) del minerale estratto è destinato al comitato e al capo, oltre spese di facilitazione dell’attività mineraria e di ospitalità e pagamento di tangenti a funzionari statali e forze dell'ordine. Alcuni siti che non hanno ottenuto un’autorizzazione da parte della Mineral Commission nazionale - tecnicamente galamsey - acquisiscono una sorta di “legittimazione” dal basso, in quanto l’attività estrattiva è approvata dal comitato e dal capo locali, che ne assumono la gestione diretta.

Lo scorso mese di giugno ho visitato una galamsey a Tinga (regione del Black Volta in Ghana) gestita dal comitato locale. Le autorità nazionali, sebbene siano a conoscenza di questa miniera alluvionale attiva e priva di autorizzazione, ne accettano tacitamente l’operatività: il sito estrattivo non solo garantisce lavoro alla numerosa comunità locale, ma anche tangenti e lauti finanziamenti al partito. Per raggiungere il sito estrattivo di Tinga è necessario penetrare una zona di fitta vegetazione; lasciata la strada principale, ne abbiamo imboccato una sterrata dove siamo stati agganciati da alcuni “guerrieri” della sicurezza locale (a bordo di motociclette, armati di AK-47 e machete) che ci hanno scortati nel sito della galamsey, nel cuore della vegetazione. A ridosso della galamsey, si sviluppa una baraccopoli dove vive una numerosa comunità e vi si trova di tutto, anche un mercato. Gli uomini, le donne e i bambini della baraccopoli sono per la maggior parte migranti, provengono dagli Stati limitrofi (Burkina Faso, Costa d’Avorio, Togo, ecc.) e lavorano tutti nella galamsey. Sono presenti anche prostitute, per la maggior parte nigeriane. Percorro la popolosa baraccopoli a bordo del fuoristrada, incrociando gli sguardi divertiti di giovani che mi salutano con ampi gesti delle braccia, regalandomi sorrisi disarmanti. I guerrieri ci fanno segno di fermarci e di scendere dal fuoristrada. In una baracca più ampia, incontro il responsabile della miniera (che è anche componente del comitato locale) e alcuni rappresentanti dei minatori. Gli spiego che siamo lì per cercare di includere il loro sito estrattivo nel processo di “formalizzazione” del settore dell’oro in atto nel Paese e che ciò significa più diritti per i lavoratori, maggiori controlli sanitari, sicurezza in miniera, abolizione del lavoro minorile, pagamento delle tasse e delle royalties al governo, quindi migliori servizi e infrastrutture per i cittadini.

Il responsabile della miniera mi dice che l’oro estratto è venduto a mediatori che lo cedono a grandi società di diritto estero a cui non interessa conoscere le condizioni lavorative dei minatori o quelle in cui vive la comunità, né le dinamiche corruttive sottostanti. Ciò che interessa loro, mi dice, è acquistare l’oro al minor prezzo di mercato, tale da poter conseguire i maggiori margini possibili.

Se le catene di approvvigionamento di materie prime critiche e minerali di conflitto nei Paesi in via di sviluppo, soffrono di tali pervasivi livelli di corruzione e illegalità, mi domando come possano le multinazionali europee, le loro filiali e i loro partner commerciali operanti in quei Paesi garantire una due diligence adeguata ai fini della sostenibilità, così come statuito dalla recente direttiva europea in materia. Peraltro, il potenziale extraterritoriale della CSDDD ha recentemente indotto parte della comunità internazionale e delle élite politiche dei Paesi terzi a ritenere che tale direttiva tenda a imporre valori eurocentrici attraverso il trasferimento di norme eurounitarie in detti Paesi, in pregiudizio dei valori e dei sistemi giuridici locali, soprattutto se si considera che le imprese destinatarie della direttiva sono per lo più imprese multinazionali, che esercitano forti pressioni economico-sociali in Paesi essenzialmente fragili. In altri termini, c’è il rischio che, su scala globale, le ambizioni extraterritoriali della CSDDD finiscano per essere interpretate come un tentativo di rafforzare una certa dominanza culturale del Nord del mondo sulla periferia, una forma di “neocolonialismo verde” che continua a sfruttare i Paesi produttori di materie prime, trasferendo il valore verso il nord del mondo e senza che tale provvedimento sia realmente in grado di interrompere i cicli estrattivi illegali nei Paesi terzi produttori di materie prime con il rischio che si continui a perpetuare il trasferimento e l’esternalizzazione del danno ambientale tipico delle supply chain globali.