Tra pochi giorni il Tar della Calabria dovrà assumere una decisione molto delicata, dalle implicazioni politiche certamente significative. Il giudice amministrativo è chiamato a valutare il ricorso, redatto dall’avvocato Rossella Barberio per conto di Sinistra italiana e Rifondazione comunista, con cui si afferma l’incostituzionalità della legge elettorale calabrese e si chiede di conseguenza l’annullamento delle elezioni che si sono tenute nello scorso febbraio e che si sono concluse con l’elezione dell’on. Jole Santelli.


Come è noto, il punto principale del ricorso è rappresentato dalla mancata adozione di misure volte a garantire la parità di genere, con conseguente violazione delle legge statale (di attuazione costituzionale) n. 20 del 2016. Pur avendo avuto ben tre anni a disposizione, il precedente Consiglio regionale non ha ottemperato all’obbligo di recepire le disposizioni nazionali che stabiliscono alcuni principi fondamentali ed inderogabili a cui le Regioni devono attenersi.


La questione è pacifica: le Regioni mantengono una certa discrezionalità ma nel caso in cui il proprio sistema elettorale si basi sul meccanismo delle preferenze allora esse devono (ribadiscono, devono) introdurre la doppia preferenza di genere. Il mancato adeguamento della normativa rende, icto oculi, la legge calabrese incostituzionale.


La questione potrebbe finire qui. L’incostituzionalità del sistema con cui siamo stati chiamati a votare è macroscopica. Ma il ricorso in oggetto presenta altre interessanti censure alla legge regionale, tra cui spicca la questione dello sbarramento fissato all’8%. Si tratta di una cifra individuata al termine della fallimentare esperienza Scopelliti, da un Consiglio regionale in regime di prorogatio e che come tale non aveva il potere di intervenire sui meccanismi elettorali.


Ma, soprattutto, si tratta di uno sbarramento altissimo, idoneo ad alterare la volontà popolare escludendo dal Consiglio regionale forze politiche consistenti, seppur minoritarie, e così introducendo un surrettizio surplus di rappresentanza, del tutto irragionevole, in favore delle principali forze politiche. D’altra parte, la controprova di questo ragionamento si è realizzata proprio lo scorso febbraio, quando le candidature di Tansi ed Aiello hanno riscosso un risultato importante – sfiorando propria la soglia dell’8% - ma sono rimaste fuori dal Consiglio, escludendo così dal gioco politico ben il 15% dei votanti. Poiché la democrazia è quel sistema in cui tutti siamo uguali e le minoranze politiche di oggi possono diventare le maggioranze politiche di domani, la legge calabrese risulta del tutto discriminatoria ed anti-democratica. Una ciofeca, direi, in termini poco giuridici ma credo efficaci.


Se il ragionamento potesse dipanarsi esclusivamente sul piano giuridico la decisione del Tar sarebbe scontata, e l’attuale Consiglio regionale potrebbe cominciare a preparare le valigie. Ma vi è il rischio che il giudice amministrativo, consapevole della pesantezza di una decisione siffatta, ponga sul piatto della bilancia valutazioni che dovrebbero restare estranee alla contesta giuridica. Qualcuno, ad esempio, potrebbe opinare che l’inadempienza del vecchio Consiglio regionale non dovrebbe ricadere su quello attuale, comunque liberamente scelto da chi si è recato alle urne.


Ma è proprio questo il gioco naturale del nostro sistema, per cui l’attuale Governo risponde davanti alla Corte Europea – e magari viene condannato – per inadempienze pregresse e di lungo corso, per cui la Corte Costituzionale decide ora di conflitti di attribuzione sollevati da maggioranze nazionali o regionali di segno opposto a quello attuale, per cui soprattutto la Costituzione prevale sempre e comunque su ogni altra ragione di convenienza ed utilità contenendo principi fondamentali che non tollerano bilanciamenti con interessi, pur rilevanti, di rango inferiore.


Si tratta, non sfugge a nessuno, di una decisione delicata, inevitabilmente destinata a sollevare polemiche a finire nel tritacarne della propaganda politica. Ma quello che si deve chiedere al Tar è di avere coraggio, di non fermarsi – per una ragione o per l’altra – e di entrare nel merito della questione guardando alla sostanza delle cose. Quello che si deve chiedere al Tar, cioè, è di chiamare in causa la Corte Costituzionale e di consentire all’organo supremo di valutare la legittimità costituzionale delle legge calabrese.


Le conseguenze saranno dolorose, probabilmente, per questa maggioranza politica ma assai salutari per la nostra democrazia e per l’indispensabile promozione dell’accesso alle cariche elettive di tutti calabresi, senza distinzione di sesso.