La foto riprodotta qui sopra, scattata in una casa disabitata di Roghudi Vecchio sull'Amendolea nell'area grecanica calabrese, è di Antonio Renda, fotografo di grandissimo talento (del quale questa testata si è già occupata qui e qui in passato) che vive e opera a Tiriolo nel catanzarese.

Essa mostra plasticamente un aspetto della Calabria e dei calabresi, avendo il pregio di sottolinearne contemporaneamente tanto l'evidenza esteriore, il modo in cui appare a tanti osservatori e viene da essi interpretato, quanto il carattere interiore, quella sua deriva psicologica implicita di cui, invece, non tutti sono consapevoli. A ben guardare, infatti, se da un lato risulta evidente lo stato di degrado di un luogo e la prospettiva di abbandono cui è inesorabilmente destinato, dall'altro, grazie alla sensibilità di un fotografo che fa dello studio e del mestiere i suoi punti di forza, emerge una distanza che separa quel luogo da una disposizione alla cura, al rispetto, alla vita dell'individuo e della comunità, ormai dimenticata, forse irrimediabilmente perduta.

A Renda interessano entrambi i versanti di quella che può essere definita una vera e propria questione calabrese e che, oltre ai risaputi fattori economici e sociali, riguarda la coscienza stessa delle persone. L'individuo, anche quando decide di restare e pur mantenendo un atteggiamento propositivo, di fatto si allontana dalla comunità, dal senso di quella calabresità ormai annacquata, addirittura manipolata e, dunque, fraintesa dai più. Insomma, in Calabria le comunità e i luoghi sono lontani anche per coloro che comunque restano e lontanissima da essi si muove la civiltà con la quale sono stati sostituiti. Il legame con le origini e la tradizione risulta reciso due volte: dai tanti che sono andati via e che continuano a farlo, restandone di fatto divisi, e dai pochi che scelgono di restare o sono costretti a farlo, ma che certamente non sono più vicini.

Alla luce di queste considerazioni e di un archivio nel quale Renda conserva migliaia di fotografie come questa (quanto sarebbe importante avere l'opportunità di aprirlo al pubblico?), sarebbe necessario ripensare i termini della nostra cittadinanza, magari tarare nuovamente alcune parole chiave, quali “impegno”, “comunità” e anche “restanza”, in modo che si possa recuperare, finalmente con esattezza e onestà intellettuale, la possibilità di abitare davvero una regione ormai lontanissima dalle nostre coscienze, disabitata e desertificata anche per colpa dell'ipocrisia di definizioni che ne coprono soltanto la parte più commerciabile.