L’autonomia differenziata non può e non deve diventare l’ennesimo terreno di scontro fra un Nord Italia in cerca di una politica industriale alternativa alle delocalizzazioni oltre che di sicurezze e di un ruolo definito nel mondo globalizzato, e un Sud Italia tuttora incapace di sfruttare al meglio le proprie enormi potenzialità. Il confronto politico cui si assiste è ancora una volta insufficiente, limitato, incentrato sulle strumentalizzazioni a breve termine e di corto respiro piuttosto che su visioni alte.

Se il Veneto di Luca Zaia avverte la necessità di guardare più alle radici storiche della Serenissima che non alla macroregione alpina perfettamente integrata con il resto del Paese, è segno di una debolezza strutturale, politica ed economico-sociale, di un Settentrione certo motore di sviluppo ma anche in forte crisi d’identità e di prospettive strategiche. Sull’altro versante, quello più mediterraneo, se le regioni del Mezzogiorno immaginano di rispolverare i contenuti dialettici di un Meridionalismo nobile ma superato, è segnale di un’arretratezza di analisi prima di tutto culturale. Le regioni dell’ex Regno delle Due Sicilie sono state governate per decenni sia dal centrosinistra sia dal centrodestra, e non ci sono stati né i Normanni né gli Ottomani alle porte per frenare o impedire processi di crescita duraturi e alternativi rispetto a una condizione di oggettiva arretratezza che ha trovato proprio di recente, nell’ultimo Rapporto Svimez, un riscontro drammatico nella descrizione di un generalizzato crollo demografico.

Non vogliamo entrare nel merito tecnico del giusto e solidale equilibrio da dare alla possibile riforma dell’autonomia differenziata. Qualche punto percentuale in più di risorse da destinare al Sud, per quanto legittimo e necessario, non risolve però le questioni di fondo. Né è sufficiente, per i rappresentanti politico-istituzionali meridionali, giocare una partita tutta in difesa o, peggio ancora, disegnata in una dimensione vittimista. Lo Stato centrale, dalla monarchia sabauda alla Repubblica partitocratica, ha tutte le proprie colpe, gravi e reiterate, per il mancato decollo della porzione più soleggiata d’Italia. Ma questa constatazione non cancella le responsabilità, altrettanto pesanti, delle classi dirigenti locali.

Il Sud ha avuto tanti nemici esterni e, purtroppo, anche interni. Miliardi di finanziamenti europei e statali sono stati spesi male se ancora i principali indicatori macroeconomici hanno il pollice verso, se l’emigrazione, come già nell’Ottocento e nel Novecento, appare l’unica risposta alla perdurante mancanza di lavoro, se buona parte del Sud non è attrattiva. Eppure il potenziale identitario, storico, culturale, ambientale e umano della vasta area geografica che va dalla Sicilia alla Campania è enorme, unico, non imitabile, fantastico e straordinario per molti aspetti. Ecco quindi che gli errori di quanti hanno governato il Mezzogiorno negli ultimi decenni, fatta eccezione per gli esempi positivi che pur ci sono stati e ci sono, è ancora più pesante e imperdonabile.

Qui non stiamo parlando della Groenlandia ghiacciata o del deserto sahariano, ma di territori baciati dalla Grazia di Dio, ricchi di foreste, feconde colline, pascoli, coste, mari, acque, di un clima idilliaco ideale per l’agricoltura e il turismo, di una centralità invidiabile nel Bacino del Mediterraneo. Un enorme tesoro (e museo) all’aperto che avrebbe meritato amore civile, impegni generosi, politiche adeguate, capacità di ragionamenti profondi, grandi progetti nazionali e internazionali. Al contrario, troppe azioni miopi e inefficaci, atteggiamenti clientelari e sperperi giganteschi, furbizie elettorali, affarismo di pochi, sfregi di varia natura hanno calpestato i diritti di intere generazioni. Ogni popolo, dice il vecchio adagio, ha il governo che si merita! Certo: le genti del Sud sono state da un lato vittime, ma dall’altro anche troppo indulgenti, talora anche per miope convenienza, nei confronti di quanti le hanno guidate senza guardare alle soluzioni collettive, ma piuttosto dispensando favori, privilegi, prebende immeritati.

Venezia e Firenze non sono nate per caso. Il loro struggente e universale fascino è il frutto di lungimiranza plurisecolare nella gestione della cosa pubblica, certo non scevra da errori e contraddizioni, ma nel complesso positiva. Gli scempi urbanistici delle cittadine calabre (con il "mattone forato a vista" direbbe Cetto Laqualunque) non sono un’eredità amara di dominazioni straniere, bensì lo sgradito “regalo” di tante amministrazioni comunali che nel tempo sono state disattente, indulgenti, motivate da interessi non ispirati dai princìpi del bello e dell’armonia. Le perduranti piaghe ed emergenze delle regioni meridionali hanno senz’altro dei padri insipienti e infedeli, ma anche dei figli spesso acquiescenti, eccessivamente tolleranti, allergici a forme di civismo avanzate. Le prime domande da porsi, quindi, sono le seguenti: perché un Sud così ricco di risorse pregiate deve ancora temere l’autonomia differenziata? Perché il Mezzogiorno non riesce a imporre una propria agenda politica?