È difficile dire se le notizie delle ultime settimane siano state buone o cattive, ma tutto ci dice che abbiamo un problema. O forse due. Uno è quello dei pacifisti con l’elmetto. La recente manifestazione “per l’Europa” che si è svolta in Piazza del Popolo a Roma in apparenza dovrebbe essere una buona notizia. È stata una manifestazione di “unità europea” senza bandiere di partito, civica, così come dovrebbero sempre essere iniziative su argomenti del genere, con le bandiere dell’Ucraina invasa dai Russi ed addirittura due bandiere palestinesi, a significare la doverosa solidarietà che va a tutti i popoli aggrediti.

In piazza si sono visti la federazione sindacale Cgil -Cisl-Uil, l’Anpi, la Comunità di Sant’Egidio, l’Agesci, la Fondazione Perugia-Assisi, Elly Schlein, Carlo Calenda, Riccardo Magi, Nicola Fratoianni, Maurizio Landini ed Angelo Bonelli, ma anche personaggi famosi come Fabrizio Bentivoglio e di indubbia caratura culturale e morale come Corrado Augias e Giuliana Segre, tutti insieme, perché “insieme” è “la più europea delle parole”, come è stato ricordato. Tutto è avvenuto in nome della nobile argomentazione che tenere insieme persone diverse per orientamento politico fa parte, come ha detto Michele Serra, di quel felice “scandalo” che si chiama democrazia. Roberto Vecchioni ha cantato ed un violoncello ha suonato l’Inno alla Gioia di Beethoven, perché siamo tutti Europei ed anche tutti Tedeschi contro l’arroganza americana. E, sia detto senza ironia, in questo non c’è niente di male, perché esiste davvero una Germania da amare.

Ma, al di là della bella coreografia, si è trattato di una adunata di pacifisti con l’elmetto, compiaciuti di sé, privi di discernimento, completamente autoreferenziali ed, in definitiva, irresponsabili, ma soprattutto tristemente simili ai nazionalisti europei del 1914, quando tutti, da Thomas Mann ai “socialpatrioti” della Seconda Internazionale operaia, sia pure con le dovute eccezioni, scoprirono la necessità della “forza” e permisero ai propri paesi di usarla.

Poco importa che Calenda e Renzi siano pronti da subito a votare per il Piano Von Der Leyen, mentre Elly Schlein probabilmente andrà all’astensione, perché astenersi, come fecero i socialisti italiani del “Non aderire né sabotare” sui crediti di guerra del 1915, significa sempre avallare. E questo è stato il leitmotiv della manifestazione, la “forza” europea.
Tutti hanno ripetuto in coro che l’Europa ha bisogno della “forza” e tutti hanno inteso questa parola come sinonimo di “forza militare”, con qualche sfoggio muscolare in più da parte di Carlo Calenda, che considera vigliacchi i pacifisti in genere e quelli che non la pensano come lui, o con qualche pernicioso sofismo, da parte di Roberto Vecchioni, che ha distinto “pace” da “pacifismo” salvo poi concludere che “i veri pacifisti siamo noi”.
Nessuno ha inteso il concetto di “forza europea” come sinonimo di soggettività politica.

C’è stato anche chi ha scambiato fischi per fiaschi. Luciana Litizzetto ha parlato di 450 milioni di Europei «che credono nella libertà, nella democrazia, nello stato di diritto, nel rispetto della dignità umana, che vogliono continuare a pronunciare parole come diversità, femminismo, disabilità, antirazzismo». Beh, qualcuno si dovrà prendere l’onere di ricordare a questa gentile signora che, se si arriverà alla guerra “di principio” contro la Russia, di tutte le belle cose che ha nominato non rimarrà alcuna traccia.

Era dai tempi del Movimento delle Sardine che non si vedeva un parlarsi addosso così a vuoto. “Nella Costituzione c'è scritto che l'Italia ripudia la guerra”, ha ricordato qualcuno nonostante tutto. Ecco, appunto, ma se sarà necessario basterà, come altre volte nel passato, chiamare la guerra in un altro modo ed il “gioco” sarà fatto. Si potrà magari chiamare “operazione militare speciale”, come Vladimir Vladimirovic Putin ha chiamato l’invasione dell’Ucraina, cioè la sua guerra.

La buona Luciana dice di non “ricordare a memoria” il Manifesto di Ventotene e, in questo, è sicuramente nella stessa condizione di Elly Schlein, che invece quel Manifesto lo ha citato a sproposito.
E qui arriviamo al secondo problema, cioè la qualità scadente del dibattito nostrano sull’Europa, sempre provinciale e male informato, se non proprio da orecchianti. Giorgia Meloni ha suscitato scandalo per avere detto che l’Europa del Manifesto di Ventotene scritto nel 1942 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi non è la sua.

Tutta l’opposizione ha gridato ipocritamente alla “lesa maestà”, ma Meloni, considerato il suo passato politico, non può accettare la sostanza di quel Manifesto. Siamo però sicuri che l’Europa di Spinelli e Rossi sia quella dell’opposizione definita, a casaccio, di sinistra? Bene, cominciamo con il dire che il Manifesto di Ventotene considerava come principio fondante della nuova Europa che sarebbe sorta dopo la guerra il più completo ripudio non solo del fascismo ma della guerra stessa. Aggiungiamo che la nuova Europa del Manifesto di Ventotene avrebbe dovuto arrivare progressivamente all’abolizione della proprietà privata, cioè avrebbe dovuto essere, se non proprio socialista, comunque aperta a forti elementi di socialismo. E poi, cosa ancora più importante e forse anche indigesta ai più, dell’Europa di Spinelli e Rossi avrebbe dovuto fare parte anche la Russia.

Chi, tra gli intrepidi pacifisti anti-russi con l’elmetto che difendono il Manifesto solo a parole, sarebbe disposto a sottoscrivere simili cose?
Giorgia Meloni ha ragione. Una simile Europa non può essere la sua, ma nemmeno quella di Elly Schlein, perché l’Europa di Meloni, Schlein e tutti gli altri, nessuno escluso, è quella di Konrad Adenauer, quella reazionaria e strettamente legata al Patto Atlantico, ma oggi quella Europa è anacronistica anche per Donald Trump perché la “guerra fredda” non c’è più e non c’è motivo di ripristinarla. E poi sarebbe forse ora che la politica europea, che è costantemente anti-russa da almeno due secoli, cambiasse rotta, cercando di staccare la spina alla pericolosa paranoia di Vladimir Putin. Se lo ha fatto, in condizioni ben più difficili, John Kennedy con Nikita Krusciov in occasione della crisi di Cuba del 1962, perché l’Europa oggi non può fare qualcosa di simile sulla crisi ucraina invece che organizzare parate militari?

La triste verità è che oggi ciò che accomuna la paranoia di Putin, appunto, la pochezza di Giorgia Meloni, Ursula Von Der Leyen, Elly Schlein, Carlo Calenda, Matteo Renzi ed Emanuel Macron, la nauseante arroganza di Donald Trunp e la patetica retorica di Volodomir Zelenski è il loro pensare in termini di guerra. Giorgia Meloni, come tutti i leaders europei, si è messa l’elmetto e, anche se forse ha qualche incertezza nello stringere il sottogola, è tutta interna a questa logica, perché altrimenti, come ha intelligentemente dichiarato di recente, “l’Italia diventerebbe una comunità hippie demilitarizzata”. “Magari!”, ci sarebbe da rispondere. Non sarebbe nemmeno necessario farsi crescere i capelli e farsi le canne.

Ma gli orizzonti politici italiani ed europei dicono altro, ecco perché sarebbe necessaria una nuova soggettività culturale e politica, in Italia ed in tutta Europa, che riprendesse un’idea, questa sì autenticamente europea, che i movimenti pacifisti tedeschi ed italiani degli anni Ottanta del Novecento avevano cercato di fare diventare consapevolezza diffusa: “Se vuoi la pace prepara la pace”. Pochi giorni fa, invece, Ursula Von Der Leyen, nel ribadire, chissà perché, che il riarmo è “una chance per l’Italia”, ha declinato quella frase esattamente al contrario. Peggio di così…