Per motivi assolutamente personali, mi sono reso conto, mio malgrado, come sia sbagliato pensare che ciò che si scrive sia sempre compreso da chi legge. Questa incomprensione è dovuta a tante variabili: il livello culturale, la capacità e l’attenzione prestata da parte di chi legge, ma anche, evidentemente, il modo in cui un testo è scritto così come l’uso appropriato del linguaggio e della costruzione grammaticale. Chi scrive, allora, deve farlo al meglio possibile, rileggendo e correggendo, rendendo il più possibile accessibile il concetto che si intende esprimere. Il testo scritto ha sempre un destinatario, in alcuni casi molteplici e diversi; bisogna quindi che esso sia sempre calibrato su chi legge e ascolta.

Molto spesso, però, la mancata comprensione non è imputabile alle difficoltà di un destinatario più o meno abituato a leggere, perché molte volte accade anche – così usciamo dall'incipit che è personale – che chi parla o scrive è intenzionalmente oscuro e impiega volutamente parole che sono assolutamente errate; si afferma questo perché non si può pensare - per il rispetto che si deve a chi le pronuncia - che chi parla o scrive non conosca il significato delle parole che impiega.

Un ottimo esempio di quanto si sta dicendo, lo si può ben cogliere se si prende in considerazione la nuova normativa in tema di Reddito di cittadinanza (RdC) e se si ragiona sull’impiego distorto che in questi giorni sta assumendo il termine di occupabile, con tutte le conseguenze politiche e sociali che tale lemma porta con sé.

Superato il dibattito sull'inadeguato - per non dire inopportuno sms inviato dall'INPS alla gran parte dei percettori del reddito di cittadinanza (l'unico merito è stato quello di ricordarci che gli sms ancora esistono!) – ci siamo ricordati, all'improvviso (sic!), che era arrivato a scadenza il termine della misura dell'assistenza sociale fino ad allora erogata (così come deciso dalla legge di bilancio dello scorso 29 dicembre).

Dallo scorso 1° agosto si è dato il via alle nuove condizioni di povertà per le quali solo alcuni e non anche altri potranno essere considerati poveri dallo Stato e quindi da questo (scarsamente) sostenuti e non (del tutto) abbandonati. Come previsto dalla legge di bilancio, trascorsi sette mesi dalla sua entrata in vigore, la cessazione del reddito di cittadinanza è scattata per migliaia di persone non perché queste siano uscite dalla povertà o abbiano rifiutato un’offerta di lavoro, ma solo perché considerate occupabili: tutti coloro (tra i 18 e i 59 anni) che possono lavorare, ma che non rientrano nei casi di nuclei familiari al cui interno vi siano persone con disabilità, persone con almeno sessant’anni di età o minorenni (non più povere ex lege sono quelle famiglie che proprio in questi giorni hanno festeggiato la maggiore età di un figlio/a).

Tralasciando le gravissime responsabilità di un Governo e di un Parlamento che non hanno predisposto le misure da loro stessi previste per assicurare il passaggio da un sistema (già mal messo) di welfare a uno di workfare in questi 7 mesi, si vuole richiamare l’attenzione del lettore sull’impiego politico del termine occupabile. Si tratta di un aggettivo e si usa per indicare chi è disponibile per un’occupazione, ovverosia che si trova nella possibilità di svolgere un lavoro.

Ma come si fa a parlare di persona occupabile senza assicurare a essa alcuna possibilità di svolgere un lavoro, dal momento che questo semplicemente non esiste? E che non esista lo dice la stessa normativa per la quale il RdC non sarebbe stato più erogato a coloro che non avessero accettato un posto di lavoro. Cosa non verificatasi. È come se, trascorsi i sette mesi di preavviso, la responsabilità degli occupabili che sono ancora senza occupazione sia da imputare a loro stessi! La povertà cessa di essere una condizione e diventa uno stigma!

E allora, per dare peso alle parole, che sono e rimangono importanti, bisognerebbe parlare di persone abili al lavoro per richiamare alle responsabilità la maggioranza e le opposizioni riguardo all’opportunità (doverosità) di assicurare un sostegno economico dignitoso fino a quando lo Stato non assicuri a loro un lavoro (rinviata, intanto e non per caso, è la discussione sul salario minimo). E sì, perché rientrano fra i compiti della Repubblica quello di riconoscere «a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove[re] le condizioni che rendano effettivo questo diritto» (art. 4 Cost.) così come quello di ricevere una retribuzione tale da «assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa» (art. 36 Cost.): così recitano non alcune petizioni di principio, ma norme precettive, cioé che producono vincoli giuridici, affinché ogni cittadino «concorra al progresso materiale o spirituale della società».

Il RdC si muoveva in questo quadro costituzionale, tanto che, in un momento in cui si parla ripetutamente di LEP (in tema di discussione sul regionalismo differenziato), qualcuno (oggi lo faccio io) dovrebbe pur ricordare che la misura sul RdC, che è stata inopinatamente abrogata e non già modificata – come invece avrebbe dovuto avvenire –, costituiva il livello essenziale delle prestazioni di un diritto sociale tanto che la sua limitazione a sette mesi è risultata subito irragionevole, con conseguente vulnus costituzionale. Dovrebbe essere noto al decisore politico – ma si nutre più di un dubbio che ciò lo sia – che è «la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione» (Corte cost., sent. n. 275/2016). Quando si parla di livelli essenziali di un diritto fondamentale – ed è questo il caso – si discorre di quel nucleo duro che, se viene meno, intacca irrimediabilmente il diritto stesso con diretta, manifesta e chiara violazione del testo costituzionale.

Se tutto questo dovesse continuare a non risultare chiaro, seguiterà a mostrarsi poco comprensibile il livello generale della discussione, che dovrebbe prima o poi concentrarsi sull’efficacia della misure adottate rispetto alle povertà, senza scadere in un dibattito francamente desolante quando si riduce a come disincentivare il RdC a favore della (doverosa) ricerca di lavoro attraverso una disorganica normativa che trova la sua prima e ultima ragion d’essere nella assai poco edificante retorica dell’anti-divano.

E allora, la prossima volta che sentiremo affermare che chi è occupabile non ha diritto ad alcun reddito, dovremmo rispondere come era solito domandare un interdetto Carlo Verdone nel 1980 in Un sacco bello: «In che senso?».

Per l’intanto, speriamo che fra le letture scelte dai nostri politici rientri anche il bel libro di Chiara Saraceno, David Benassi, Enrica Morlicchio, La povertà in Italia. Soggetti, meccanismi, politiche, Il Mulino, 2022.

Per l’intanto, soprattutto, speriamo che si ricordi già da subito – e non in seguito all’invio del prossimo sms – che l’art.13 del d.l. 48/2023 stabilisce che la fruizione del reddito di cittadinanza per i pochi che ancora continueranno a riceverlo non potrà andare oltre il 31 dicembre 2023; che lo ricordi almeno l’opposizione.

*costituzionalista DESF-UniCal