Un mese fa la scomparsa della scrittrice che con i suoi lavori, le scelte di vita e il rendere pubblico il suo vissuto di malata ha rotto tutti i tabù legati alle malattie oncologiche, spostando lo sguardo sulla cura
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È trascorso un mese da quando Michela Murgia, scrittrice, opinionista, femminista, intellettuale e attivista ha finito di vivere. Lo ha fatto pubblicamente, come precisa scelta politica, perché tutto (per lei) era politica, anche il morire. Michela Murgia ci ha dimostrato per l’appunto come il morire - inteso come processo e non solo come atto naturale e spazialmente puntuale - possa essere un atto politico, ovverosia rivolto alla comunità, col fine di cambiare (o almeno proporre un’altra) visione delle cose, del mondo e persino del cammino che ognuno di noi, membro di una comunità politica, decide di intraprendere. Il fine vita, Michela Murgia, l’ha trattato in uno dei suoi libri più noti (L’Accabadora) nonché nel suo ultimo lavoro editoriale (Le tre ciotole), e in molti suoi interventi (sempre polemici e poco irenici) sui social, sulla carta stampata e in televisione, anche a conforto delle campagne di sensibilizzazione promosse da chi in Italia si occupa di diritti civili, come in particolare l’Associazione Luca Coscioni.
Michela Murgia ha parlato e scritto non solo di fine della vita inteso come libertà di scegliere il modo e il momento in cui porre fine a una esistenza considerata come non più degna di essere vissuta, ma ha piuttosto discusso con puntualità del rapporto tra malattia, corpo e persona, riprendendo, attualizzandole e incarnandole, le tesi della filosofa e scrittrice statunitense Susan Sontag sviluppate ne La malattia come metafora, pubblicato per Feltrinelli nel 1977, e riedito, meritoriamente, da Nottetempo nel 2020.
Michela Murgia, infatti, in una delle sue ultime interviste rilasciate ad Aldo Cazzullo per il Corriere, spiegava che non intendeva parlare della sua malattia impiegando metafore da registro bellico come «lotta, guerra, trincea»; «il cancro è una malattia molto gentile. Può crescere per anni senza farsene accorgere». Michela Murgia ci ha mostrato che la malattia è vita, che - così come scriveva Susan Sontag - è il suo «lato notturno», e che «la metafora del cancro è particolarmente rozza. È, invariabilmente, un incoraggiamento a semplificare ciò che è complesso, è un invito all’arroganza se non al fanatismo».
La Murgia con i suoi scritti, con le sue scelte di vita e con il suo rendere pubblico il suo vissuto di malata rompe tutti i tabù legati alle malattie oncologiche, spostando lo sguardo sulla cura. Entrambe hanno rifiutato di affrontare la malattia ricorrendo a una metafora bellica, perché se essa viene vissuta come ciò che non è non può essere considerata e affrontata per ciò che è, e in modo libero da pensieri metaforici: solo così la malattia smette di essere assunta collettivamente - e, quindi, individualmente - come colpa, disagio, imbarazzo, vergogna e paura. Entrambe malate di cancro, Murgia con una neoplasia renale, Sontag con una neoplasia della mammella, ci hanno insegnato che «Le nostre idee sul cancro, e gli usi metaforici a cui lo abbiamo sottoposto, sono in larghissima parte un mezzo attraverso cui si esprimono le grandi insufficienze della nostra cultura: l’atteggiamento superficiale rispetto alla morte, le ansie emotive, le risposte avventate e sconsiderate […] l’incapacità di costruire una società industriale avanzata in grado di regolare correttamente i consumi, e i giustificati timori sul corso sempre più violento della nostra storia». Oggi, sui social la malattia è diventata sempre più manifestazione di quotidianità, di riservatezza privata da condividere; il messaggio sovente veicolato è sempre quello che si sconfiggerà la malattia solo se e nella misura in cui essa sarà “attaccata”, se si riuscirà a “lottare” con tutte le armi a disposizione.
La morte è oggi ritenuta un evento oltraggiosamente insensato, la malattia, che viene largamente considerata sinonimo di morte, è sentita come «qualcosa che bisogna nascondere» (sempre Sontag). Michela Murgia, invece, non ci ha nascosto nulla della sua malattia, anzi, con atto rivoluzionario, si è mostrata in tutti i passaggi anche i più dolorosi, rivelando allo stesso tempo, però, che un’altra narrazione è possibile, che altre parole sono possibili, che la morte è un evento naturale, fisiologico. In tal modo, accettando la propria condizione, si è riappropriata della vita, della sua vita fino alla fine; lasciandoci con un vero messaggio (che a distanza di tanti anni dalla nascita della bioetica e del biodiritto continua a dover essere considerato come) rivoluzionario.
Murgia ci ha insegnato, a suo modo, a prendere in considerazione almeno due prospettive, quella del paziente e quella del medico: la prima, quella del paziente, per la quale è possibile porsi di fronte alla malattia non in termini di "lotta", perché ciò significherebbe assumere la propria condizione di malato come una debolezza di carattere, quasi dipendesse da sé stessi la colpa di non guarire; la seconda, quella del medico, per la quale è possibile interessarsi della persona nella sua complessa individualità senza scivolare in riduzionismi, che portano a concentrarsi esclusivamente sulla cura di un "singolo" organo. E così, Murgia ha deciso di farsi curare, ma allo stesso tempo rifiutando la cura qualora la terapia fosse risultata inutile. Il suo medico, rispettandola nella sua soggettività, ne ha tutelato l’intimità, e ciò è stato possibile nella misura in cui si è rinunciato sin dall’inizio a ‘sentirsi in guerra’.
*costituzionalista, DESF-Unical
**oncologo, ASST di Cremona