Nell’Italia sventrata dall’inflazione anche bar, ristoranti e pizzerie diventano sempre più inaccessibili. I soldi per fare la spesa non bastano e nonostante ciò il cibo viene sprecato. Paradossi di un sistema economico insostenibile
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C’è una fame che non si sazia con il pane. È la fame del convivio, della parola scambiata sopra la tovaglia ruvida di una trattoria o ben stirata di un ristorante; quella del bicchiere sollevato in un gesto di festa che ha radici antiche, popolari, umane.
Ma questa fame sta morendo.
L’Italia, quel grande ventre materno che ha fatto della tavola un altare laico, oggi viene sventrata dall'inflazione e dall'avidità dei mercati. I bar, i ristoranti, le pizzerie – un tempo santuari del popolo, luoghi in cui persino il più povero poteva assaporare un momento di lusso, una parentesi di calore – stanno diventando sempre più inaccessibili. Non perché manchi il desiderio, ma perché il prezzo del desiderio è stato alzato oltre le possibilità del popolo.
Siamo cresciuti cullati dall’illusione che fosse naturale, persino dovuto, fino a quando la vita ci ha trascinati davanti al confine implacabile in cui "l’utilità dell’inutile" diventa un lusso che non possiamo più concederci.
Ora una folla sempre più numerosa si accalca fuori dalle vetrine illuminate, non più seduta ai tavoli, ma costretta a osservare in silenzio gli altri che mangiano. Il vetro separa due mondi: dentro, chi può ancora permettersi il lusso di una cena; fuori, chi si limita a guardare, a contare gli spiccioli in tasca, a calcolare la distanza tra la fame e il conto.
Ma se il ristorante è diventato un lusso, anche il frigorifero di casa inizia a svuotarsi.
Oggi il problema non è solo la cena fuori. Anche la tavola di casa sta diventando un campo di battaglia economico. I listini di alimentari e bevande crescono a velocità molto superiori alla media. Secondo i dati Istat, il costo dei beni alimentari non lavorati è cresciuto del +3,4% su base annua, e il prezzo del “carrello della spesa” è aumentato del +2% solo negli ultimi mesi.
Cifre fredde, che però raccontano una realtà caldissima: Nel 2024, una famiglia con due figli ha speso in media 228 euro in più all'anno per cibi e bevande rispetto all'anno precedente.
Nel 2025 la situazione sembra addirittura peggiorare, non sono solo i prodotti di lusso a rincarare: l’olio di oliva costa il 14,3% in più, il burro il 14,7%, la verdura fresca il 9,4%. Anche un semplice caffè è diventato un piccolo sacrificio, con un rincaro dell’11,8%.
E la carne? Il pesce? Secondo un’analisi Coldiretti, 2,3 milioni di famiglie italiane non possono più permettersi di portare in tavola un pasto proteico ogni due giorni. Quasi una su dieci.
Per alcuni, questa è solo economia. Per altri, è privazione, è il sacrificio quotidiano di una madre che deve scegliere tra il latte per i figli e le bollette. È la cena a cui un padre rinuncia per garantire almeno un pranzo ai bambini. È la spesa che si fa nei discount, cercando di allungare il più possibile quei cinquanta euro che un tempo bastavano per una settimana e che oggi si dissolvono nel giro di pochi prodotti.
E mentre il popolo impara a privarsi, il paradosso continua a mordere: mentre la fame aumenta, il cibo continua a essere sprecato.
Ogni secondo che passa nel mondo, l’equivalente di quasi 12mila pasti finisce nella spazzatura. Uno scandalo economico, etico e ambientale che in Italia si traduce in un dato impressionante: il cibo perso e sprecato potrebbe sfamare 1,26 miliardi di persone ogni anno.
Il problema non è solo delle grandi catene di distribuzione, lo spreco avviene anche nelle case, dove si gettano via tonnellate di alimenti ancora commestibili, mentre milioni di italiani fanno i conti con la necessità di razionare i pasti. È l’effetto di un’economia che non ha una direzione, che produce abbondanza e povertà nello stesso istante, che insegna a comprare troppo per poi buttare via, mentre allo stesso tempo rende il cibo sempre più costoso per chi ne ha davvero bisogno.
Il risultato? Tavole sempre più vuote, frigoriferi sempre più poveri, famiglie che non sanno più cosa significhi sedersi insieme senza l’ansia di un conto da pagare.
Il capitalismo non ha bisogno di tavolate, di risate tra amici, di sguardi che si incrociano sopra un piatto di pasta. Ha bisogno di individui soli, di consumatori seriali, di gente che inghiotte il cibo da asporto davanti a uno schermo, isolata nella propria esistenza monetizzata.
Così, la cena si trasforma in un lusso, il caffè in un privilegio, il gelato per un bambino in una spesa da valutare con attenzione. Il popolo, per resistere, si rifugia nei discount, nei prodotti scadenti, negli avanzi di un sistema che lascia cadere le briciole mentre continua a ingrassare i suoi conti invisibili.
La crisi non si ferma alla tavola, si insinua nelle case, trasforma i salotti in stanze fredde e spente, dove la luce elettrica e il riscaldamento diventano un lusso da razionare. È il rumore sordo delle serrande abbassate dei piccoli negozi di alimentari, mentre i discount si affollano di sciami d’umanità in cerca di sconti.
L’ultimo stadio di questa degenerazione è la rassegnazione.
Si insegna alla gente a non desiderare più, a non pretendere, a non ribellarsi. L’aumento dei prezzi è solo un altro strato di questa pedagogia della rassegnazione: prima ti abituano a pagare di più, poi ti convincono che non avevi bisogno di ciò che stai perdendo.
E allora, in questa Italia e in questa Calabria dove anche una pizza è diventata un lusso, cosa resta?
Resta la speranza che in qualche angolo del Sud, tra le strade di Cosenza, di Catanzaro o di Reggio, qualcuno si sieda ancora a tavola con gli amici, versando il vino con lo stesso gesto di sempre, ignorando per un attimo l'angoscia del prezzo della bottiglia, e ricordando che la vera fame non è quella di cibo, ma quella di umanità.
Perché finché ci sarà qualcuno che si ostina a tenere viva la convivialità, a spezzare il pane con chi gli sta accanto, a ridere davanti a un piatto fumante, ci sarà ancora una speranza. E forse, da una tavola condivisa, potrà partire la vera consapevolezza: quella di un popolo che non accetta di essere ridotto a numeri, a spiccioli, a rinunce.
Perché mangiare insieme non è un lusso. È un rito antico, è nutrimento per l’anima. Qualcosa che ci riporta a casa, anche quando siamo lontani.
Un filo sottile che ci lega al passato e ci proietta nel domani.
Un gesto semplice che custodisce ciò che siamo stati e ciò che potremmo diventare.