Il grande evento a Cosenza si svolgeva nel centro storico ed era la celebrazione di un rito collettivo. Il trasferimento in periferia ed il suo progressivo snaturamento, rappresenta un esempio emblematico di come il rapporto tra il territorio e le sue tradizioni può subire una frattura insanabile
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Molti di noi hanno ancora vivo il ricordo della Fiera di San Giuseppe legato al centro storico di Cosenza. La Fiera nel centro storico non era solo un evento commerciale, ma era la celebrazione di un rito collettivo, serviva a rinsaldare un legame con il passato della città vecchia, che anno dopo anno si rivitalizzava, colorandosi giorno e notte di mille luci.
Il suono delle bancarelle montate all’alba, l’odore della liquirizia e del torrone, i venditori ambulanti che riempivano le strade strette con i loro richiami: tutto questo apparteneva a un tempo vissuto e condiviso.
In quegli anni la Fiera aveva ancora una forte identità, e rispecchiava la vitalità per cui, nei tempi meno moderni, le Fiere venivano organizzate. Fino a qualche decennio fa, la loro funzione, come qualsiasi altro avvenimento che interrompeva la routine quotidiana, non era soltanto quella di favorire scambi commerciali, ma era anche quella di farsi promotrici di scambi sociali, culturali e simbolici.
Per qualsiasi città le fiere sono sempre state momenti di apertura verso il mondo, occasioni di incontro, in cui si conoscevano prodotti, emozioni, storie e cibi da luoghi più lontani, ed erano momenti in cui, attraverso il riconoscimento collettivo ed il confronto con l’altro, l’intera comunità cresceva. Naturalmente i tempi cambiano, e sarebbe impensabile che un evento mantenga immutato il suo corso per tantissimi anni, ma il legame con il proprio luogo di origine dovrebbe rimanere inalterato, a testimoniare quella continuità tra presente, passato e futuro che è fondamentale per qualsiasi città o borgo. L’antropologo Vito Teti ci insegna che i luoghi non sono entità statiche, ma vivono e si evolvono nel tempo, attraverso le memorie, le trasformazioni e le nostalgie di chi li abita. Ogni evoluzione o trasformazione di un evento dovrebbe cercare sempre di armonizzare tradizione e progresso, senza mai pendere eccessivamente da una parte.
La Fiera di San Giuseppe, con il suo trasferimento in periferia ed il suo progressivo snaturamento del suo significato, rappresenta un esempio emblematico di come il rapporto tra il territorio e le sue tradizioni può subire una frattura insanabile. Quando qualcosa perde la sua funzione originaria e si svuota della sua identità storica, quello che accade non è solo un cambiamento fisico, ma un’alterazione profonda del senso di appartenenza delle comunità, e la Fiera trasferita su uno stradone senza storia, è sprofondata in una monotonia senza anima, nella iper razionalizzazione dello spazio che ha ucciso anche il tempo della festa.
La Fiera di San Giuseppe è diventata la passeggiata tra le bancarelle di Viale Mancini, una immensa vasca da passeggio che si snoda su di uno stradone senza angoli ciechi, in una ripetitività che ricorda gli incubi del socialismo reale, piena di barriere, grate di ferro, riempita solo di bancarelle, tutte uguali, simili a qualsiasi mercato di periferia di una città qualsiasi. Ma paradossalmente questa modalità di vivere le Fiere è coerente con il mondo che si vive ogni giorno: un mondo grigio, povero di cultura, un mondo senza piazze, ma pieno di percorsi stabiliti dove la diversità è solo apparente.
Nella logica del sistema in cui siamo immersi, ogni processo, ogni fenomeno sociale è stato lentamente sottomesso ad un’idea progressiva di smantellamento delle identità. Così come i centri delle città sono pieni delle stesse catene a basso costo (HM, Bershka, Zara), anche la fiera è diventata la celebrazione del nulla, dove anche i vari stand di cibo hanno il sapore preconfezionato del fast food. Pensateci bene, la qualità è stata mortificata in quasi tutte le manifestazioni popolari, nella fiera delle città moderne, il consumo deve essere senza anima, il prodotto senza cultura, il sapore intercambiabile, in quanto ogni cosa deve essere massificata, resa asettica senza radici e differenze. Questo incedere di persone su una strada senza vita ha anche ucciso le manifestazioni di raccordo: nella Fiera non ci sono più artisti di strada, non ci sono teatrini mobili, non c’è un suono esotico, ma si sente solo una musica dance di 30 anni fa, roba così kitsch che oramai neanche le giostre bulgare accetterebbero di diffondere. Non è mai stata la strada a cementare una comunità, ma la piazza, il vicolo, la trattoria.
Ci auguriamo che la Fiera possa ritornare ad animare il centro storico e che, con essa, si ristabilisca quel legame profondo tra la città, la sua storia e la sua comunità. Tuttavia, questo auspicio non può limitarsi a una semplice nostalgia del passato, ma deve tradursi in una consapevolezza critica rispetto alla tendenza, sempre più diffusa, ad accettare il declino culturale che si vive come inevitabile. Il futuro lo disegniamo noi; rompere questa assuefazione alla mediocrità significa rifiutare l’idea che il degrado e la perdita di identità siano processi irreversibili. Significa ripensare le nostre città come luoghi vivi, dove il passato non è solo un ricordo malinconico, ma una risorsa per costruire il futuro e valorizzare la vera anima popolare dei luoghi.