Ha ragione la sorella della vittima quando dice che il patriarcato è l’espressione di un sistema di potere millenario in crisi ma ancora radicato nei comportamenti quotidiani di tanti maschi
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La vicenda di Giulia Cecchettin e della sua barbara uccisione per mano di Flippo Turetta ci induce ovviamente a qualche riflessione sulla situazione della cultura sociale di questo paese in tema di rapporti tra uomini e donne, per quanto una riflessione su questo, per doverosa che sia, ci espone al rischio di ripetere cose già dette e ripetute decine di volte. La possibilità del luogo comune è dunque dietro l’angolo, ma cerchiamo ugualmente di aprire il discorso. L’assassinio della povera Giulia, al di là di ogni espressione – anche questa doverosa – dell’infinito strazio umano che esso ci suscita, appartiene alla tristissima tipologia dei delitti dettati dal senso possessivo maschile. Questo senso possessivo è stato analizzato infinite volte, per cui è inutile ritornarci sopra. Spesso è stato sottolineato – ed a giusta ragione – il corto circuito tra la metabolizzazione delle conquiste sociali delle donne seguite al femminismo ed il permanere di un senso della “mascolinità” fermo ancora all’era precedente al femminismo.
Caso Cecchettin | Filippo Turetta confessa: «Ho ucciso Giulia, poi volevo farla finita ma non ho avuto il coraggio»
Molte volte è stato osservato che in teoria tutti i maschi, probabilmente anche molti femminicidi, condividono una visione aggiornata e moderna della donna e del suo ruolo nella società, ma poi al dunque, sul piano dei sentimenti, ecco che rispunta quel deteriore senso “proprietario” che si credeva morto e sepolto. Domandiamoci allora perché questo avviene. Ma, prima di rispondere a questa domanda, vediamo perché le risposte che vengono date a questo fenomeno, anche quelle meglio intenzionate, non funzionano, visto che le uccisioni di donne non solo non accennano a scomparire ma nemmeno a diminuire in maniera significativa. Si dice - e lo ha ripetuto chiaramente anche il padre della ragazza di Vigonovo - che è necessario vincere l’omertà che circonda tanti rapporti di coppia malsani e soprattutto bisogna denunciare.
E questo, per quanto parziale, è vero ed ha comunque la caratura di una risposta che deve essere necessariamente sociale. Quello che invece è tragicamente insufficiente è la risposta che a questo dramma danno la politica ed anche un certo post femminismo.
La politica. Che pochezza! Ufficialmente un consenso “bipartisan” a qualsiasi cosa vada contro le uccisioni di donne. È certo! Ci mancherebbe. Poi, nel dettaglio, da un lato Giorgia Meloni risponde a modo suo, da postfascista, in termini di repressione. Non gliene si può nemmeno fare una colpa più di tanto. Ognuno è figlio della propria formazione politica. Dall’altro lato Elly Schlein fa la saccente: “La repressione non basta”, dice, “La risposta deve venire dalla scuola”.
Ora, si dà il caso che se c’è qualcosa che nella scuola italiana proprio non manca è l’attenzione e la sensibilità su queste tematiche, per cui invocare l’opera salvifica dell’istruzione è un inutile richiamo di maniera, un luogo comune improntato al “politicamente corretto” più intellettualmente pigro. La questione è che quello che la scuola caccia dalla porta ritorna regolarmente dalla finestra, attraverso l’adesione ai modelli culturali, politici e sociali dominanti, non importa se di vera destra o di falsa sinistra, visto che oggi le differenze sono appiattite dall’omologazione più totale e, quando ci sono, si dispiegano su un piano puramente sovrastrutturale. E quali sono i modelli culturali, politici e sociali di oggi? Quelli di sempre, o meglio quelli da sempre veicolati dalla civiltà - si fa per dire - capitalista, quelli dei “drogati di giacca, cravatta, capelli corti, whisky e conto in banca”, per dirla con Allen Ginsberg, cioè il mito della “imprenditorialità” come panacea di ogni problema, quello della “efficienza” decisionista, quello del “successo personale” slegato da ogni vincolo sociale, quello della personalità “forte” e “vincente”, quello dell’egocentrismo esibizionista, l’idea della iniquità come “legge naturale”, l’ossessione venale per il denaro, insomma l’individualismo borghese, con tutto quello che di arrogante, autoritario, prepotente e prevaricatore questo concetto implica.
Ed in che cosa si riassumono tutti questi miti? In una cosa sola: il senso proprietario del possesso di qualsiasi cosa o persona, l’“uomo ad una dimensione” di cui ci ha parlato Herbert Marcuse a suo tempo, che è la “dimensione” del possesso appunto o, per dirla con Erich Fromm, del prevalere dell’“avere” sull’essere. Se nella società questo senso proprietario è considerato un modello culturale e comportamentale desiderabile non ci si può stupire che, nelle menti maschili più labili, frustrate o semplicemente narcisiste, esso arrivi fino alle conseguenze più estreme e drammatiche.
L’individualismo borghese ed il senso proprietario che ne è la conseguenza sono però il contrario della comunicazione tra esseri umani ed è invece proprio la qualità di questa comunicazione che definisce anche la qualità dei rapporti tra un uomo ed una donna.
Sono state parole di coraggio e di verità quelle pronunciate da Elena Cecchettin, sorella della vittima. Elena ha ragione quando afferma che una violenza come quella di Filippo Turetta su sua sorella Giulia, purtroppo simile a centinaia di altre, serve a ristabilire la gerarchia. Ed ha ragione quando dice che il patriarcato, perché è di questo che si tratta, è l’espressione di un sistema di potere millenario in crisi ma ancora radicato nei comportamenti quotidiani di tanti maschi. Di nostro aggiungiamo che, quando l’apparente “anacronismo” del patriarcato si unisce alla “normalità” borghese dominante, il risultato è la barbarie pura di chi distrugge una donna per conservarne una memoria a misura del proprio ego, di chi uccide per quello che gli uomini - ed anche moltissime donne purtroppo – sono da sempre educati a chiamare amore, ma che amore non è. Virginia Woolf ha descritto con precisione la funzione delle ragazze come la povera Giulia e ed il narcisismo infantile dei maschi come Filippo Turetta, dichiarando: “Quello che fa una donna che studia, scrive, o semplicemente esprime uno sguardo diverso ed autonomo, è di togliere all’uomo che le sta accanto lo specchio in cui riflettersi”.
Sono questi i motivi per cui non convince per niente la risposta del post femminismo contemporaneo, o quanto meno di una buona parte di esso, che misura l’emancipazione ed addirittura la “liberazione” delle donne attraverso le fette di potere sottratte ai maschi, dei quali si è assimilata la cultura, per cui figure come Margareth Thatcher o Giorgia Meloni sarebbero dei simboli, oppure ostenta narcisisticamente la probabile maggiore intelligenza e sensibilità delle donne come un valore e non considera che la “maggiore intelligenza” non basta averla, bisogna anche farne un buon uso.
Il femminismo storico ha veicolato una cultura di liberazione per tutti. Faceva lo stesso discorso che aveva fatto il socialismo un secolo prima. Come i socialisti dell’Ottocento dicevano “La classe operaia, liberando sé stessa, libera il mondo”, le femministe del Novecento dicevano: “Le donne, liberando sé stesse, liberano il mondo”.
Il post femminismo attuale invece, non mettendo in discussione i modelli culturali che determinano la violenza maschile, riduce il dramma dei femminicidi ad un problema di semplici “buone maniere” liberali, che ci sarebbero o non ci sarebbero a prescindere da ogni contesto ambientale. Ecco perché ha ragione una volta di più Elena Cecchettin, che rimanda a questa dimensione più ampia di contestazione e di liberazione globale quando dice: “Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere. Serve una educazione sessuale effettiva e capillare, serve insegnare che l’amore non è possesso. (…) Per Giulia non fate un minuto di silenzio. Per Giulia bruciate tutto”.
Per chiudere in bruttezza una parola va spesa infine sulle miserabili dichiarazioni del consigliere regionale veneto Stefano Valdegamberi, che ha accusato Elena Cecchettin di essere “ideologica” ed ha poi mostrato immagini prese dal suo profilo Facebook scrivendo che questa ragazza, intelligente e lucida nonostante il devastante dolore che ha in corpo, avrebbe “esaltato” simboli di satanismo. Valdegamberi, con l’apertura mentale che gli è propria, forse quattro o cinque centimetri, evoca uno scenario da “Tremate! Tremate! Le streghe son tornate!”. Beh, speriamo.