L’aborto è una tematica molto discussa, specialmente da punto di vista etico.

Esistono due tipi di aborto: spontaneo e indotto. Il primo è causato da traumi o patologie, mentre il secondo avviene intenzionalmente. Quest’ultimo, oggi, è sempre più diffuso. Specialmente tra i giovani. Nonostante sia fortemente condannato da chi lo etichetta come un vero e proprio omicidio. Ciò ha portato a un acceso dibattito tra i cosiddetti  “pro-life”, schierati contro l’aborto, e i “pro-choice”, a favore di esso.

L’aborto deve essere una libera scelta, una scelta spesso sofferta e altrettanto spesso necessaria.

Si sostiene che la pillola è meno invasiva, meno costosa, meno medicalizzata e quindi dovrebbe essere una valida all’alternativa all’aborto chirurgico.

 

Invece nel dibattito pubblico l’aborto è ancora rappresentato come una piaga sociale: le donne che oggi scelgono di interrompere  la gravidanza sentono il peso di una nuova disapprovazione.

L’immagine delle donne vittime si è trasformata in quelle delle egoiste che non vogliono avere figli. O di quelle che vogliono banalizzare la faccenda ricorrendo ai farmaci.

Negli ultimi giorni il dibattito si è riacceso a causa della decisione del Ministro della Salute che ha aggiornato le linee guida sulla pillola abortiva Ru486. La pillola si potrà assumere fino alla nona settimana senza ricovero, prorogando il termine delle sette settimane previsto finora. Una possibile spiegazione alla scelta del ministro si potrebbe rinvenire nel fatto che il Consiglio superiore di Sanità ha sottolineato i vantaggi economici di questa decisione, in termini di risparmio per la sanità pubblica e di riduzione dei costi per le procedure abortive.

 

In tutto ciò, dov’è il bene della donna? Consentire che la pillola Ru486 sia somministrata in ospedale e che poi la donna possa uscirne ed espellere l’embrione-feto in privato e in totale solitudine, con rischi di gravi e fatali emorragie, è un modo per ridurre la portata della norma di garanzia per la donna. Si sottovaluta inoltre anche l’impatto sociale del dramma dell’interruzione di gravidanza, che con questa procedura lampo si vorrebbe rendere sostanzialmente una pratica “fai-da-te”, ma che certamente non si attenua normalizzando l’aborto, i cui strascichi psicologici accompagnano la vita di chi la praticato, ma soltanto con un’efficace opera di prevenzione. Che civiltà è mai quella che permette alle donne  di abortire in casa, magari in solitudine, senza assistenza medica?

 

È assolutamente legittimo il diritto dell’autorità ecclesiastica a riaffermare i principi del cattolicesimo su di un problema di cui nessuno ne nasconde la delicatezza, come quello dell’aborto , e a richiamare la donna -madre-cattolica, cui spetta la scelta, al rispetto di fondamenti dottrinali della sua religione. E’ una questione di coscienza a cui nessuno può opporsi. È il cuore di una madre, che riconosce il bene  e meglio di ogni altro sa discernere.

Non stiamo a “puntare il dito”, non siamo noi a dover giudicare una scelta così delicata e personale.

In un paese civile non si tratterebbe di eroismo ma di normalità. Le donne che richiedono l’applicazione della 194 non esercitano un diritto, ma subiscono una necessità, e gli ospedali, i medici, i concittadini, la chiesa e lo stato, dovrebbero trattarle con dignità e rispetto. Questo, almeno, in un paese civile.