"Antonio Gramsci e l'identità italiana" è il titolo di un articolo del ministro Gennaro Sangiuliano, pubblicato sul “Corriere della Sera” di mercoledì 24 gennaio. Sangiuliano conclude il suo articolo con queste parole: «Certo, Gramsci fu il fondatore del Partito comunista. (...) Ma questo non deve far velo ad una analisi oggettiva e libera del suo pensiero. Inoltre, appare doveroso il riconoscimento della sua statura e l'inclusione a pieno titolo nella dialettica della ideologia italiana».

Beh, considerata la identità del suo autore, la conclusione di questo articolo deve essere considerato un notevole sforzo di equanimità storica e ciò sia detto senza la minima ombra di ironia. C’è anche di più. Nelle parole del ministro Sangiuliano c’è una maggiore equanimità di quanta non ce ne sarebbe verosimilmente stata in un articolo analogo scritto da qualcuno del Pd o della sedicente “sinistra” attuale, ammesso che tali discussioni storiografiche possano essere ancora un’attività corrente.

Detto questo, una volta reso omaggio all’iniziativa in sé meritoria di Gennaro Sangiuliano, bisogna però aggiungere che una “analisi oggettiva e libera” del pensiero di Antonio Gramsci porta al contrario di ciò che conclude il ministro.

Per capirci, Gramsci non sta a pieno titolo nella dialettica della ideologia italiana nonostante il fatto di avere fondato il Partito Comunista Italiano, ma proprio perché ha fondato il Partito Comunista Italiano e proprio perché il suo partito è stato, in modo particolare, comunista ed italiano.

Sangiuliano riconosce onestamente la grandezza morale di Antonio Gramsci ma, aggiunge, il suo pensiero si iscrive interamente “nel leninismo e nella rivoluzione bolscevica” (le minuscole sono dell’autore).

Ebbene, perché questo sarebbe un limite? Gennaro Sangiuliano dice che Gramsci nel “biennio rosso” del 1919 – 1921, “esaltò la violenza rivoluzionaria”, ma questa è, con ogni evidenza, una forzatura logica, perché in realtà Gramsci esaltò - da leninista, certo - la Rivoluzione russa, che fu violenta nella stessa misura in cui lo fu la prima guerra mondiale, alla quale storicamente fu una reazione.

È poi argomentazione piuttosto risibile il dire che questa cosiddetta “esaltazione” della “violenza rivoluzionaria” avrebbe portato al fascismo. Davvero siamo convinti che, se i rivoluzionari del 1919 – 1921 fossero stati più gentili nel linguaggio, il fascismo non ci sarebbe stato? In ogni caso, sul piano storico, gli errori di “estremismo” - peraltro puramente teorico - compiuti in quegli anni, più che in Gramsci e nel PCI, vanno ricercati in parte della sinistra socialista.

È vero che Antonio Gramsci ebbe parole dure nel descrivere i ceti medi, gli “ordini medi”, come li chiamava Marx, come è altrettanto vero che simili accenti non si addicevano all’idea, tutta “politica”, di guadagnare anche quei settori sociali alla causa della Rivoluzione socialista, ma questo non toglie che, nella sostanza e rispetto ai suoi tempi, Gramsci avesse ragione. Quale altro settore sociale è stato decisivo quanto il ceto medio per l’affermazione del nazi-fascismo? Ma quelle parole dure non furono in alcun modo “un programma di vero e proprio annientamento della piccola e media borghesia”. Andiamo!

Nel seguito del suo articolo, infine, Gennaro Sangiuliano ammette, bontà sua, che i Quaderni del carcere sono “certo una grande opera di pensiero, condotta eroicamente, in condizioni difficilissime”, ma poi si produce in una ennesima forzatura sui concetti, in realtà complessi, di “moderno Principe” e di “intellettuale collettivo” per concludere, sic et simpliciter, che Antonio Gramsci avrebbe espresso “una concezione integralmente totalitaria della società”.

Non ha senso dire, come fa Sangiuliano, che la grandezza di Antonio Gramsci non cancella la “violenza bolscevica”, perché allo stesso modo la violenza rivoluzionaria del 1917 non cancella il crimine della prima guerra mondiale ed i crimini che il capitalismo commette ancora oggi.

Ma va bene. Gennaro Sangiuliano è un uomo di destra e, come tale, dal suo punto di vista storiografico, si inchina di fronte alla statura morale di Antonio Gramsci ma considera un limite il suo particolare “leninismo”, che non fu altro che la forma in cui il socialismo rivoluzionario si presentava ai suoi tempi. Sangiuliano considera la Rivoluzione d’Ottobre – ed il socialismo in genere - un “peccato originale” e soprattutto, considera il fascismo un “male necessario”, se non proprio un “male minore”, rispetto alla “ben concreta e reale” minaccia bolscevica.

Non ci si può meravigliare di questo.

Quello che invece desta meraviglia è che oggi una simile favoletta, scritta con il senno di poi, potrebbe essere sottoscritta da qualsiasi “anima bella” del nuovo perbenismo di sinistra, Ma forse anche questa è una delle tante cose che oggi vengono considerate “normali”, qualsiasi cosa significhi questo ambiguo aggettivo.

Nel frattempo bisogna continuare a sperare, fino a quando verrà il momento di spirare, che prima o poi qualcuno, per usare le parole di Nanni Moretti, dica “qualcosa di sinistra” o anche solo che dica qualcosa.