È evidente a tutti che il nostro Paese, se non troverà presto la forza ed il modo di ripartire, pagherà gli effetti di una catastrofe socio-economica
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La pandemia Covid-19, oltre a distruggere vite umane e a peggiorare la qualità di vita di molti dei sopravvissuti, sta modificando gli schemi di riferimento, che di per sé già presentavano limiti e contraddizioni, in campo economico e sociale.
L’Italia è purtroppo in prima linea nel fronte di guerra, per le dimensioni del contagio e per l’alto numero di morti indipendentemente dalle statistiche ufficiali più o meno attendibili e a fronte delle quali si sentono commenti e si osservano reazioni contrapposte: dal numero dei decessi in cui il coronavirus sarebbe solo una delle concause di morte a quello dei morti non censiti ufficialmente perché non ospedalizzati.
È evidente a tutti che il nostro Paese, se non troverà presto la forza ed il modo di ripartire, pagherà gli effetti di una catastrofe socio-economica. Con tutte le precauzioni del caso, in un modo graduale e guidato, bisogna tornare a far respirare il sistema, possibilmente rimuovendo ostacoli storici come la presenza asfissiante della burocrazia.
Le risposte di fronte alle emergenze immediate, come la gestione sanitaria e la crisi di liquidità delle famiglie e dell’intero sistema produttivo si stanno per il momento concretizzando in tentativi che ancora non appaiono sufficienti e tempestivi. Fino ad ora è stato solo redistribuito valore, o peggio ne è stata solo annunciata la distribuzione, senza produrlo. È chiaro che così non possiamo reggere. Si prega, ognuno secondo il proprio credo religioso o laicamente, che l’epidemia al Sud ed in Calabria in particolare, non esploda. Le conseguenze di un contagio, sia pur distante da quello della Lombardia, sarebbero, nella nostra regione, ancora più drammatiche.
Ma occorre anche iniziare a muoversi, fin da subito, per la fase della ricostruzione. E qui iniziano le divisioni. Oltre all’intervento europeo che dopo le decisioni di giovedì sera necessita comunque di ulteriori passaggi, mentre si assiste alla contrapposizione teorica ed inutile tra sovranisti ed europeisti, lo scontro che già si manifesta è tra coloro che invocano un liberismo assoluto e quelli che pretendono ed immaginano un intervento determinante dello Stato in ogni singolo aspetto e su ogni risorsa.
Gli ultraliberisti spingono verso una riapertura immediata di tutte le attività produttive, con qualche precauzione secondo piani di sicurezza aziendale che già si stanno scrivendo e adeguando allo scopo e dove si prevede che se ci sarà qualche ulteriore perdita di vite umane sarà considerata fisiologica. È un po’ quello che disse il leader britannico Boris Johnson prima di ammalarsi.
C’è chi invece, dall’altra parte, sogna uno Stato padrone, che tassi patrimoni e rendite, che metta mano, d’imperio o creandone la convinzione, su tutti i risparmi degli italiani, tramite titoli di stato nazionali, per dirigerli verso l’utilità pubblica.
Due estremi che necessitano di essere moderati.
Per essere orientati verso una ricostruzione comune non bastano i depositi bancari degli italiani: senza una visione strategica seria ed affidabile, con una classe dirigente – non solo politica – sfiduciata da tutti, si rischierebbe solo di bruciarle quelle risorse. Ma gli italiani sono pronti ad affidare i propri risparmi all’attuale governo? Per costruire insieme sono necessari impegno, consapevolezza, senso di responsabilità.
Occorrono scelte orientate alla sussidiarietà, che non significa privatizzazione, ma uguale concorso di tutti nella realizzazione di servizi e di benessere generali, accettando che la salute non è un bene privato ma pubblico.
Di fronte ad una politica stanca e stancante, orientata solo a gestire il consenso nei vuoti talk-show televisivi o tramite un uso militarizzato dei social, la gente può coinvolgersi solo in discussioni da bar (anzi oggi solo da commenti sui social, visto che i bar sono chiusi) ma quando gli si tocca il proprio risparmio è – giustamente – diffidente e difensiva.
Fino agli anni ’80, in un Paese che si difendeva dal terrorismo e da un’inflazione galoppante, determinata anche da una spesa pubblica che era stata arma di consenso sociale verso lo Stato, era comunque ancora possibile per i cittadini trovare sponda nelle comunità di appartenenza, nelle realtà sociali, nei vari corpi intermedi dove era possibile non sentirsi isolati, confrontarsi, capire meglio e ritrovare le motivazioni, il gusto e la fiducia di impegnarsi in un progetto, di partecipare al costruire comune.
Era più evidente e facile l’approccio a dialogare, a cercare il senso delle cose, in realtà a misura d’uomo dove ci si incontrava e dove era possibile valutare la qualità di una proposta e scegliere liberamente a chi dare fiducia. Chi era responsabile di queste realtà, nelle diverse appartenenze ideologiche, emergeva come leader popolare, condivideva un’idea di bene comune cosciente che ai corpi intermedi, per continuare ad esistere, era necessario coinvolgere ed aiutare la gente, contribuire alla comunità civile di appartenenza.
“Anche oggi, - scrive Giorgio Vittadini in un suo articolo di venerdì su ilsussidiario.net -leader più vicini, di cui è più facile accertare il valore ideale, possono aiutare a aderire ad iniziative volte al bene collettivo. E non è detto che, sostenendo questa dinamica, non si recuperi anche quel senso di sé, della propria identità, così in crisi in questa epoca.Si può ricominciare da luoghi di questo tipo, dove si ricostruiscono reti di dialogo e “ponti” con le istituzioni. Non c’è Stato democratico senza questa dimensione”.
Oggi, quel che resta di tali realtà sociali, viene chiamato Terzo settore, ma in realtà dovrebbe essere più importante rispetto ai primi due, il mercato e la Pubblica amministrazione. Nella società civile le persone stabiliscono le proprie reti affettive, lavorative, economiche e le loro empatie.
La generosità e la solidarietà di questo momento di crisi non svaniranno solo se troveranno ambiti in cui possano essere continuamente sostenute. Il rischio concreto è che anteponendo ognuno il proprio interesse, in un riavvio delle attività aziendali, si ritorneranno a creare le condizioni che potrebbero far riaccendere il rischio sanitario senza aver cambiato nulla nel proprio modo di agire. Occorrerà, invece, cercare soluzioni responsabili nella gestione degli spazi e delle modalità di lavoro, incrementare l’applicazione non solo formale delle norme di sicurezza ed avere un approccio responsabile anche al di fuori dell’emergenza sanitaria.
Il ruolo delle istituzioni, della burocrazia e delle banche è che diventino funzionali al progetto di risanamento e non ostativi al suo pieno compimento.
E sarà possibile avviare una costruzione solo se la politica e gli opinion leader non faranno calare dall’alto le loro decisioni senza tener conto della società civile. Altrimenti non vincerà nessuno di loro ed anzi, perderemo tutti.
di Sabatino Savaglio, consulente economico