Quello di Rosa Vespa è un grido di disperazione lanciato contro un mondo che non ascolta e lascia soli i suoi figli più fragili. Lei è il simbolo di un tempo che ha dimenticato come soffrire insieme
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Nella tragedia greca, l’azione si consumava dietro il velo del mito, gli dèi manovravano i fili, il coro rifletteva, e il protagonista cadeva, vittima del proprio destino e della propria hybris.
Oggi, la tragedia si svolge davanti ai nostri occhi, nuda, spogliata di ogni sacralità, esposto al giudizio brutale di un coro che non riflette, ma grida. La vicenda di Cosenza, il rapimento di una neonata da parte di una donna accecata dal dolore, ci ricorda quanto siamo lontani da quell’elaborazione collettiva che la tragedia antica rendeva possibile. Abbiamo trasformato il rito in spettacolo, il silenzio in rumore, la pietà in giudizio.
Rosa Vespa, la protagonista di questa vicenda, è la protagonista tragica dei nostri giorni. La sua gravidanza immaginaria e immaginata non è solo una sindrome clinica, è un mito contemporaneo, un grido di disperazione lanciato contro un mondo che non ascolta, che non comprende, che lascia soli i suoi figli più fragili. Come Medea, come Antigone, Rosa sfida il destino, cercando di colmare un vuoto che il tempo e la società non le hanno permesso di elaborare. Il suo terribile gesto, il rapimento di una neonata è l’estremo tentativo di trasformare la fantasia in realtà, di rendere concreto un sogno che la vita le ha negato. Ma nella tragedia, ogni sogno si infrange contro il muro della realtà, e ogni illusione si paga con la rovina.
Eppure, Rosa non è una semplice carnefice. Come ogni protagonista tragico, è anche vittima, vittima di un dolore mai riconosciuto, mai accolto, mai ascoltato. La società, il coro muto dei vicini, dei familiari e degli amici, ha preferito ignorare i segnali, lasciare che il dramma si consumasse nel silenzio.
Rosa mostrava ecografie false, costruiva scuse per evitare domande scomode, eppure nessuno ha voluto vedere. Come nel mito, il coro ha fallito il suo compito, non ha saputo riconoscere il dramma che si stava consumando sotto i suoi occhi.
E allora, chi è davvero responsabile? Rosa Vespa sicuramente, ma cosa pensare di una società che ha disimparato a vedere il dolore? Una società che ha sostituito il rito con il consumo, che ha trasformato la sofferenza in un prodotto da condividere sui social, da commentare, da giudicare. I social network non sono il nuovo coro tragico, ma piuttosto sono il suo parodico riflesso. Non riflettono, non mediano, non elevano. Si limitano a amplificare il caos, a trasformare ogni dramma in spettacolo, ogni tragedia in intrattenimento.
Ma cosa resta, alla fine, di questa vicenda? C’è una bambina salvata, una famiglia e una comunità che tira un sospiro di sollievo, ma anche un vuoto che rimane. Rosa Vespa è ora una figura spezzata, prigioniera di un delirio che il suo gesto non ha saputo sanare. La sua casa, addobbata a festa per accogliere un figlio mai nato, è il simbolo di un’umanità che ha perso il contatto con il sacro, con il senso del limite, con la necessità di elaborare il dolore.
Rosa non è solo Rosa, ma è anche la rappresentazione del nostro tempo. È il simbolo di una modernità che ha dimenticato come soffrire insieme, che ha smarrito il senso della comunità, che vive nella fretta di condividere, di consumare, di giudicare, ma non sa più ascoltare.
La tragedia antica ci insegnava che il dolore poteva essere trasformato in un insegnamento, in un momento di riflessione collettiva. Ma oggi il rito è stato sostituito dal frastuono.
Il dramma non purifica ma intrattiene e il dolore non si elabora, ma si consuma.
Forse è questo il vero dramma della nostra epoca. Non la sofferenza, ma l’incapacità di trasformarla in una lezione, in un momento di autentica comunione umana. E così, mentre applaudiamo al lieto fine, ci dimentichiamo che il rito non si è compiuto, che il dolore è rimasto intatto, che Rosa Vespa come troppi è rimasta prigioniera della sua solitudine.