Qualche anno fa, a commento della legge sulla c.d. devolution (per intenderci quando la Lega si faceva chiamare Lega Nord e l’intendimento era secessionista), Luciano Vandelli - un importante studioso delle autonomie regionali e locali - pubblicò il libro Psicopatologia delle riforme quotidiane. Di fronte a una Riforma - che guarda sempre all’oggi, alla quotidianità per l’appunto, tradendo la prospettiva che dovrebbe avere una compiuta modifica sostanziale volta al miglioramento di una parte ordinamentale - il nostro Legislatore oscilla tra due opposti. Da una parte è concitato: discute, delibera, approva, vota, dispone, corre perché è tardi; non c’è tempo!

Dall’altra, a tale concitazione subentra la neghittosità: il Legislatore attende, cade in uno stato di apatia e si rifugia in un pigro e ottuso sonnecchiare.
Oggi, da un lungo stato di inerzia si è passati a quello di estrema frenesia che non è che l’altra faccia della stessa malattia; in metafora la stessa psicopatologia.

Oggi stiamo assistendo a un processo tumultuoso di elaborazione delle riforme (attuative del testo costituzionale) pur con la chiara volontà di evitare il dibattito pubblico, quasi questo fosse fastidioso se fuori dai limiti degli annunci, appunto pubblici, e delle fazioni semplificative e false. Insomma, è il dibattito parlamentare che va evitato, anche solo per una ratifica. Oggi, il Legislatore, pur non appartandosi a decidere in una casa privata del Comune di Lorenzago di Cadore (quella da dove nacque la bozza della devolution), rifugge dal Parlamento e si rifugia in una fonte del diritto fino a poco tempo fa ai più sconosciuta ma oggi molto di moda: il famigerato dPCm, decreto del Presidente del Consiglio dei ministri.

Si vuole subito sgombrare il campo da eventuali obiezioni verso quanto si esporrà. Chi parla non è a favore né di converso è contro ad alcuna ipotesi di maggiore autonomia in capo alle Regioni perché conosce il principio supremo del pluralismo territoriale e sa che l’art. 5 della Costituzione - subito dopo aver affermato che la Repubblica è «una e indivisibile» - sancisce che questa «riconosce e promuove le autonomie locali», e sa che l’art. 114 della stessa Carta stabilisce che la Repubblica è costituita, fra l’altro, «dalle Regioni e dallo Stato».
Il dibattito tra fautori e contrari all’autonomia semplicemente non ci appassiona.

Le domande che ci sembrano utili alla discussione critica allora sono almeno due: di cosa parliamo quando parliamo (oggi) di regionalismo differenziato? Che regionalismo differenziato sarebbe quello che andrebbe a determinarsi nelle odierne situazioni fattuali? Queste ci paiono essere le domande corrette per inquadrare il problema da un punto di vista e costituzionale e, se lo si vuole, politico.

Da studioso del diritto costituzionale non posso che denunciare che il comma 3 dell’art. 116 Cost. fu introdotto nella riforma costituzionale del 2001 dall’allora maggioranza di centro-sinistra. Da allora sono trascorsi più di due decenni e una parte rilevante del testo costituzionale chiede un’attuazione o un decisivo ripensamento (a tal riguardo va segnalato il c.d. ‘ddl costituzionale Villone’, di cui si stanno raccogliendo le firme per la presentazione).

Appuntato ciò, possiamo iniziare col dire che il ministro Calderoli ha una chiara idea di ciò che propone. E allora, cerchiamo di capire di quale regionalismo differenziato egli si fa portatore.

Iniziamo col ricordare che per regionalismo differenziato si intende quel surplus di autonomia che le Regioni possono richiedere e sulle quali potranno esercitare la competenza legislativa senza più l’intervento dello Stato: fra tali materie rientrano, per esempio, quella dell’istruzione, della salute e della tutela e sicurezza del lavoro. Ulteriori forme e condizioni particolari «possono» essere attribuite con legge dello Stato, «su iniziativa» della Regione interessata, «sentiti» gli enti locali. La legge statale dovrà essere approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti «sulla base di intesa» fra lo Stato e la Regione interessata.

Fin qui il procedimento, che comunque è delicato nella misura in cui - una volta attribuite le forme ulteriori di autonomia - queste potranno essere ripensate solo ed esclusivamente sulla base di una nuova intesa, cioè di un comune accordo tra lo Stato e la Regione interessata; detto in altri termini - lo si dice in modo franco - il procedimento di attribuzione di nuove materie alla Regione richiedente è definitivo e non pare lasciare spazio a un ripensamento, rimanendo astratta l’ipotesi per cui la Regione accetti l’eventuale riduzione proposta dallo Stato delle materie attribuite o si faccia essa stessa fautrice di tale cambio di rotta che paleserebbe un fallimento, anche politico, dell’autonomia conquistata.

Passiamo ora alla sostanza.

Il regionalismo differenziato (che, lo si ripete, è costituzionale) si innesterebbe oggi (come ieri) in una situazione economica e sociale di un Paese che è diviso fra Nord (sviluppato) e Sud (arretrato). Fra un Nord che compete a livello globale, o almeno europeo, e un Sud che arranca contro le sfide economiche ormai ineludibili.

Vogliamo che questa frattura si ricomponga o vogliamo accettarla come uno status quo irrivedibile perché “così è in quanto così è sempre stato”? La domanda non è retorica, la poniamo perché non conosciamo ancora la risposta che ne ha dato il decisore pubblico, quella presa alla luce del sole, quella utile a responsabilizzare la politica tutta davanti al proprio elettorato. Assumiamo questo ritardo, ben sapendo che il rischio è quello che tarderemo ad averla se non inizia un serio e ampio dibattito pubblico nell’unico luogo che a ciò è deputato, l’aula parlamentare. Ma a oggi non esiste alcun dibattitto pubblico; eccoci arrivati al punctum dolens dell’intera vicenda.

Non c’è dibattito pubblico da quando nei primi mesi del 2018 il Governo Gentiloni (in piena prorogatio, in carica per il solo “disbrigo degli affari correnti”, date le Camere sciolte) ha stipulato i c.d. “pre-accordi” con alcune “forti” Regioni del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) e non è previsto per l’imminente futuro, nel quale il Parlamento, letteralmente, sparisce. Si smaterializza il luogo del dibattito pubblico proprio nel momento in cui avremmo bisogno di conoscere la risposta su quale modello di Paese stiamo costruendo, per capire qual è il livello di regionalismo differenziato accettabile dal e nel nostro modello.

E infatti l’altro punto focale delle problematiche inerenti il regionalismo differenziato è che la rivendicazione di maggiore autonomia si inserirebbe in un ordinamento repubblicano in cui mancano i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e (soprattutto) sociali. Livelli - quelli di cui la Costituzione parla - che devono essere definiti dal potere legislativo, a valle di un dibattito pubblico.

Qui, con un vero e proprio "gioco delle tre carte", per tranquillizzare sulle conseguenze dell’autonomia differenziata, si produce un rimedio che è peggio del male, creando un vulnus costituzionale del tutto insostenibile. Il Governo della Presidente Meloni (impiego la lingua italiana e declino il genere) ha appena approvato una norma (la legge di bilancio) che determina l’esclusione definitiva del Parlamento dal circuito della “rappresentanza”; lo si afferma, così, in modo forte, in modo volutamente provocatorio, perché in questo esautoramento si intravvede la stessa logica che ha spinto per la riduzione del numero dei parlamentari: il Parlamento non serve, possiamo tranquillamente farne a meno.

Spiego il perché di un giudizio tanto pesante.

L’art. 1, cc. 791-798, della legge di bilancio appena approvata a colpi di questioni di fiducia, consente l’attuazione del regionalismo differenziato subordinatamente alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (i noti LEP). Le criticità iniziano fin da qui: al lettore non sarà sfuggito che il regionalismo differenziato viene subordinato solo alla determinazione dei LEP e non già al fatto che questi siano stati attuati e quindi previamente finanziati; le risorse finanziarie che dovrebbero garantirli non sono previste, perché non esistono.

I problemi (un vero e proprio ‘gioco delle tre carte’) continuano non appena comincia la lettura dei commi, in quanto si prevede la costituzione, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, di una «Cabina di regia per la determinazione dei LEP» (quindi non per il finanziamento, stiamo parlando di scatole vuote anche se di legge di bilancio) nella quale siedono (solo) esponenti del Governo centrale e i (soli) Presidenti della Conferenza delle regioni, delle province e dei comuni.

Cabina, questa, che entro un anno - anche con l’aiuto di un organo consultivo (la Commissione tecnica per i fabbisogni standard) composto da 12 economisti nominati dallo stesso Governo - dovrebbe predisporre uno o più schemi di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (i dPCm) con cui saranno determinati i LEP e i correlati costi e fabbisogni standard.

Incredibile a dirsi, ma chi si è scagliato contro i dPCm per due anni, ora li richiama per la definizione dello stesso futuro ordinamentale del nostro Paese.

I decreti di cui si parla sono quelli della Presidente del Consiglio che sono adottati sulla base di una ricognizione della spesa storica a carattere permanente dell’ultimo triennio. Traduciamo: si intende legare le future risorse destinate ai territori alle spese effettuate negli ultimi anni da quegli stessi territori, formule per cui “chi ha avuto di più avrà di più” e “chi ha avuto di meno avrà di meno”, tanto da riproporre la frattura (benché stigmatizzata) tra un Nord ricco e un Sud povero.

E ancora, il termine di un anno sarebbe da considerarsi come perentorio, tanto che qualora le attività della Cabina di regia non si concludano nei termini stabiliti si vivrà in una situazione paradossale in cui il Governo commissaria se stesso: sarà nominato un Commissario che entro un determinato termine - che deciderà la stessa Presidente del Consiglio dei ministri - avrà il compito di portare a completamento «le attività non perfezionate» e di proporre l’adozione di uno o più dPCm.

Chi scrive ha difeso la costituzionalità dei dPCm dell’ultimo biennio per una ragione semplicissima, quelli erano meramente attuativi di quanto già disposto da un decreto-legge che era controllato dal Presidente della Repubblica e se del caso dalla Corte costituzionale e comunque dal Parlamento che lo convertiva entro 60 gg.

Oggi il dPCm è assolutamente libero. Il dPCm non è un regolamento governativo, anche se, leggendo la legge di bilancio, con esso ha molti punti di contatto (è deliberato dal Consiglio dei ministri) ma non quello della forma che per il regolamento è quella del dPR (decreto del Presidente della Repubblica), con la conseguenza che non è da questi controllato.

Il dPCm non è un decreto legislativo, anche se la legge di bilancio assomiglia molto a una legge che delega il Governo a predisporne più di uno; ma non essendo un decreto legislativo non sarà controllato né dal Presidente della Repubblica (controllo a priori) né dalla Corte costituzionale (nel suo controllo a posteriori).

Evidentemente non è neanche una legge, anche se per la definizione dei LEP l’art. 117 richiede proprio che sia una legge a determinarli; e anche in questo caso nessun controllo da parte dei due custodi e garanti della Costituzione.

Detto in altro modo: spogliato il Parlamento della sua funzione di produttore delle leggi, il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale non avranno modo di valutare la compatibilità della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni con i principi costituzionali. E ciò perché i due garanti della Costituzione non sono abilitati a controllare il dPCm, che è un atto amministrativo.

Oltre a essere il prodotto di un malcelato accordo (il regionalismo differenziato oggi per avere il presidenzialismo domani), la normativa ha una ratio evidente: escludere il conflitto di cui il Parlamento è custode e portatore, e con esso l’idea stessa di democrazia costituzionale.
Come ci ricorda da anni Gustavo Zagrebelsky, pare che siamo scivolati nella più subdola e infima criticità propria di tutti i sistemi democratici: l’assuefazione alla democrazia.

*costituzionalista DESF-Unical