È ufficiale. Abbiamo anche noi il nostro “ducetto” ed il suo nome è Matteo Salvini, l’uomo che ha dimezzato d’autorità lo sciopero dei ferrovieri, cosa che non fece mai né l’antico regime democristiano né quello di Craxi, Andreotti e Forlani, nemmeno nei loro giorni peggiori. Lo dico a malincuore, perché ero convinto, molto vanagloriosamente, di essere stato io ad inventare per lui il termine di “ducetto”, che invece è stato usato come titolo di un libro su di lui pubblicato dalle edizioni Kaos, che ne ricostruisce le gesta. Ma le sue gesta, ahinoi, sono già largamente conosciute.

Matteo Salvini il “ducetto” ha fatto parte della cosiddetta “Padania” di Umberto Bossi, quella “federalista”, quella che si pretendeva erede di Carlo Cattaneo e che così ingenerava il solito equivoco cromatico tra cioccolata ed… altro, quella dei cerebrolesi veneziani in tuta mimetica asserragliati sul campanile di San Marco in attesa della secessione e quella del livore protervo ed ignorante contro i “terroni” meridionali. Si è già detto in altra occasione che il “ducetto” Matteo ha indiscutibilmente compiuto un suo capolavoro politico, quello di trasformare un partito localista e territorialista come la Lega in un grande partito di destra nazionale, come fu il Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale a suo tempo, cosa che nemmeno i Fratelli d’Italia, che di quel partito sono gli eredi diretti, sono riusciti a fare, anche se hanno la guida del governo.

Ma, una volta detto questo, bisogna aggiungere che la destra nazionale di oggi, come quella di ieri, non è una cosa buona per il Paese, soprattutto per un paese che si ostina a pensarsi come nato da quella Resistenza antifascista che diede via alla sua Costituzione nazionale. Quella di Salvini è infatti una destra non solo nazionale e nazionalista ma di un nazionalismo completamente fuori dal tempo, è la destra gonfia di pregiudizio xenofobo, quella della caccia ai rom, quella delle ronde anti-immigrati, quella ossessionata dalla cosiddetta “legittima difesa” e dal grilletto facile (“Quelli che votano a destra perché hanno paura dei ladri, oooh yeah”, Enzo Jannacci, 1975), quella della castrazione chimica per gli stupratori, meglio se stranieri, quella dell’apologia dell’evasione fiscale, quella della riapertura dei bordelli, quella dell’integralismo religioso, quella dell’invocazione alla Madonna e dell’uso contundente di simboli religiosi cristiani, quella della crociata contro l’Islam, considerato in blocco come un coacervo di taglia-gole dell’Isis, quella che considera il comunismo ormai “superato” ma usa il termine “comunista” come un insulto (e non come un complimento in genere non meritato) in un paese che ha espresso comunisti come Antonio Gramsci, quello dell’intesa con la destra fascista di Meloni e La Russa e soprattutto quella del rigore codino verso i reati dei poveracci e della più silenziosa indulgenza verso la criminalità finanziaria dei colletti bianchi.

Matteo Salvini, si sa, è amico del premier ungherese Viktor Orban e dei nuovi arnesi del fascismo contemporaneo, quelli che, avendo provato la giacca stretta del cosiddetto “socialismo reale”, non si sono cuciti un’altra giacca ma hanno girato a rovescio la precedente, illudendosi così di essere diventati “occidentali” a tutti gli effetti. In ogni caso l’Italia del “balilla” padano, nonostante i tentativi di mediazione di Angela Merkel, è uscita sconfitta proprio da Orban nella battaglia per la ripartizione dei rifugiati, per cui, da quando è stato abolito il trattato di Schengen, i “dannati del mare” sono costretti a rimanere in Italia, in Spagna o in Grecia, che sono i paesi di immediato arrivo. E, quando è stato al governo con Conte e Conte con lui - per il bene del Paese si capisce – il “balilla” ha creduto di governare ignorando il governo di cui faceva parte.

Che altro farà adesso? Di certo tutta la propaganda possibile e immaginabile. Inventare fake news, ad esempio, cosa che ha già abbondantemente fatto, come quando, in piena campagna elettorale, pubblicò un tweet dove si parlava di una “invasione di immigrati” mentre i numeri erano crollati. Quando qualcuno muore nel mare tra la Libia e l’Italia perché vuole qualcosa di meglio dalla propria vita il “ducetto” è muto, ma a suo tempo trascorse tre mesi a raccontare del perfido “pusher” immigrato che aveva assistito indifferente alla morte di una tossicomane – una “povera” tossicomane questa volta, perché Italiana - e che ne aveva occultato il cadavere facendola a pezzi per nasconderla in valigia.

D’altronde l’uomo è il suo stile e resta dunque incomparabile l’oscenità di una frase come “È finita la pacchia” riferita agli immigrati. La pacchia! Ci sarebbe da fargli fare un cambio almeno temporaneo e fargliela provare personalmente questa “pacchia” perché, come dicevano i nostri nonni contadini, con qualche correttezza linguistica in meno e molta saggezza in più, il sazio non crede al digiuno. Matteo Salvini è l’uomo dell’“aiutiamoli a casa loro” e delle “ong che guadagnano sui salvataggi in mare”.

E qui arriviamo al punto. Aiutare a casa loro i “dannati della Terra”, per dirla con Fanon, significa mettere in discussione la globalizzazione liberista del neocapitalismo stile nuovo millennio, cosa che non solo Salvini e la destra ma anche la sedicente “sinistra” sono ben lontani dal volere fare, ecco perché Salvini parla per il puro gusto di emettere fiato. Delle “ong che guadagnano sui salvataggi in mare” poi non è nemmeno il caso di parlare. Entrambe le frasi, in ogni caso, delineano il profilo di un nano della politica, che pretende di affrontare qualsiasi problema complesso dicendo sempre che è colpa di altri.

La precettazione mascherata dei ferrovieri è dunque solo l’ultima di tante sparate a vuoto. Ma sono davvero così a vuoto? Non sarà che, a furia di considerare la politica italiana come una mediocre operetta, ci siamo ormai messi a minimizzare qualsiasi cosa? In tempi relativamente recenti Matteo Salvini ha dichiarato di volere durare trent’anni, dieci in più del suo modello politico. Noi naturalmente ci auguriamo anche molto meno, ma soprattutto ci auguriamo che il suo intervento senza precedenti sullo sciopero dei ferrovieri non sia il preludio a un percorso simile a quello del maestro di Predappio.