In Italia si muore male. Non parlo di incidenti, di violenza o di malattie improvvise. Parlo di persone che, intrappolate in corpi devastati da malattie incurabili, soffrono indicibili dolori senza alcuna via d'uscita legale. Il suicidio assistito, al momento, è un diritto negato dalla burocrazia, dalla politica pavida e da un’ipocrisia di fondo che permea il nostro Paese. Altri Stati civili come la Svizzera, il Belgio e l’Olanda hanno compreso che il diritto di morire con dignità è parte integrante della libertà individuale, in Italia il dibattito si trascina tra ricorsi legali, obiezioni ideologiche e un codice penale obsoleto.

La Corte Costituzionale ha già chiarito nel 2019, con il caso di Dj Fabo, che il suicidio assistito non è sempre reato, ma ha lasciato alla politica il compito di legiferare. Cosa è successo da allora? Nulla. I partiti evitano il tema, impauriti dalle pressioni della Chiesa e da un’opinione pubblica tenuta all’oscuro con il solito moralismo da quattro soldi. Si continua a procrastinare, a rimandare, a evitare un argomento che riguarda la libertà fondamentale di ogni individuo. Chi siamo noi per imporre a qualcuno di vivere un’agonia interminabile? Il concetto di autodeterminazione vale solo quando fa comodo? Se possiamo scegliere di interrompere le cure, se possiamo redigere un testamento biologico, perché non possiamo decidere in piena coscienza di mettere fine a un’esistenza fatta solo di dolore?

Non stiamo parlando di capricci o di scelte avventate, ma di persone che, lucidamente, chiedono di poter morire con dignità, senza dover subire inutili sofferenze. I detrattori parlano di rischio abuso, di possibili pressioni su soggetti fragili, eppure, nei Paesi dove il suicidio assistito è legale, le regole sono chiare e precise: valutazioni mediche approfondite, ripetute richieste da parte del paziente e l’assenza di alternative terapeutiche efficaci. Non si tratta di aprire le porte all’eutanasia di massa, ma di garantire un’opzione di libertà a chi non ha più nulla da sperare. Inoltre, l'esperienza di altri Paesi dimostra che non si verifica alcuna deriva, nessuna corsa alla morte facilitata, ma solo il riconoscimento di un diritto fondamentale. La verità è che questa battaglia riguarda tutti, nessuno di noi sa se un giorno si troverà a dover fare una scelta estrema, ma tutti dovremmo avere il diritto di farla senza dover ricorrere a soluzioni clandestine o a un viaggio costoso in Svizzera. Lasciare che qualcuno muoia soffrendo quando chiede solo di andarsene con dignità non è compassione, è crudeltà legalizzata. La sofferenza non dovrebbe mai essere imposta per legge, eppure questo è ciò che accade ogni giorno in Italia.

L’Italia si vanta di essere un Paese moderno, evoluto, ma su questa tematica resta drammaticamente indietro. Lo stesso Papa Francesco ha parlato più volte di dignità nella sofferenza, ma non si può accettare che questa dignità venga interpretata come un obbligo a soffrire fino all’ultimo respiro. La compassione non è infliggere dolore a chi non ha più speranza, ma accompagnarlo verso una morte serena, quando lui stesso lo ritiene giusto. La politica deve smettere di avere paura e affrontare la realtà, non è più accettabile che la mancanza di una legge costringa le persone a lunghi iter giudiziari o a viaggi estenuanti per morire in un altro Stato. È ora di garantire una scelta chiara, regolamentata, sicura. In un Paese che si definisce moderno, il suicidio assistito deve essere regolamentato e reso accessibile, senza ipocrisie e senza scorciatoie. Basta con le scuse, basta con la codardia politica. La vita è un diritto, ma anche la morte deve esserlo. Ogni giorno di attesa è un giorno in più di sofferenza imposta a chi non ne può più.