La domanda provocatoria è questa: possiamo assuefarci alla continua violazione del principio della separazione dei poteri? Oltre che provocatoria, la domanda è retorica, perché la risposta è “no”.

Il fatto che si squalifichi il giudice non ossequioso del ‘Governo che ha vinto le elezioni’ (ricordo sommessamente che il Governo non vince le elezioni) è sempre grave, e che lo si faccia di continuo non può consentire che si cada nell’assuefazione.

I fatti a cui ci riferiamo sono di qualche giorno fa e ora a ‘bocce ferme’ si può chiarire quanto accaduto. Il Tribunale di Roma non ha convalidato il trasferimento in un altro Stato (l’Albania) di 12 migranti. L’accusa di “esondazione” è giunta repentina, come il decreto-legge che, per bocca del Ministro della Giustizia, dovrebbe essere (ma non potrà esserlo!) in grado di obbligare i giudici all’interpretazione fornita in quell’atto di tautologismo esasperato sono sicuri i Paesi che il Governo afferma siano sicuri!

Si chiarisce, quindi, che il giudice capitolino (che ha disapplicato la norma interna in contrasto con quella europea) e poi quello bolognese (seguito da altri colleghi che hanno interpellato la Corte europea su quale sia la corretta interpretazione del diritto) non possono per ciò solo essere etichettati come ‘comunisti’; essi, invece, hanno ben studiato come si applica il diritto e conoscono, quindi, il principio dell’effetto diretto e della primazia del diritto eurounitario su quello interno.

Principi, quelli appena richiamati, che non possono essere disattesi da un decreto-legge (atto, dunque, con la stessa forza della legge) perché non solo questo è del tutto carente dei presupposti per la decretazione d’urgenza («casi straordinari di necessità e d’urgenza») ma anche perché il Governo non può imporre la sua interpretazione delle leggi. E questo perché il giudice è soggetto alle leggi che deve applicare interpretandole nel rispetto della Costituzione e delle Carte internazionali (e delle Corti che ne assicurano la piena osservanza).

Lo si dice chiaramente: fa specie che questi principi non siano conosciuti dal Governo, tanto da indurre a pensare che il fine di chi scrive atti che chiaramente non potranno poi che essere disapplicati è quello di cercare a tutti i costi lo scontro, sulla pelle di chi è ridotto a «carico residuale» da spostare da un luogo a un altro.

Chi solo prova a giudicare il comportamento dei ministri (si pensi al giudizio penale in cui è imputato il Ministro Salvini) o gli atti (si pensi al decreto legge rinviato alla Corte europea) non può essere accusato di politicizzazione perché ciò vìola appunto la separazione dei poteri, principio costituzionale che ha sulle spalle giusto qualche secolo.

Non esiste l’atto politico insindacabile dai giudici, perché ogni atto e comportamento deve essere conforme alla Costituzione; o è conforme o non lo è, tertium no datur.

Siamo in attesa di leggere la sentenza della Corte di Giustizia che arriverà tra qualche mese; nel frattempo il risultato che si è raggiunto è quello di un conflitto fra poteri che è insostenibile.

I giudici vengono quotidianamente “messi alla berlina”. Gli esponenti della maggioranza (e non pochi delle opposizioni) dovrebbero sapere che tutti hanno il diritto di manifestare il loro pensiero, compresi i magistrati. Certo, chi esercita la funzione giurisdizionale deve essere conscio che l’indipendenza e l’imparzialità della funzione passa non solo dall’esserlo ma anche dall’apparire tale. Ma di qui ad accusare in modo verbalmente violento una magistrata di aver partecipato nella sua veste di privata cittadina a una manifestazione indetta da alcune organizzazioni che chiedono la difesa dei diritti (costituzionali) dei migranti (giudice Apostolico) intimorisce la persona e delegittima la funzione, così come accade quando ci si scaglia contro chi (magistrato Patarnello) scrive una e-mail (rivolta alla propria comunità di colleganza) in cui si palesa la preoccupazione per l’indipendenza della magistratura sottolineando di non dover «fare opposizione politica, ma difendere la giurisdizione». Tutto ciò è segno della cultura costituzionale del giudice comune, che va ossequiato e non certo diffamato.

Prima di chiudere queste brevi note, e richiamando il decreto legge (mal chiamato “paesi sicuri”) si ricorda che questo deve essere convertito entro 60 giorni dal Parlamento e la prassi (palesemente incostituzionale) di inserirlo a emendamento della legge di conversione di un altro decreto legge (c.d. “flussi”) non permette alle Camere di controllare l’operato del Governo nei tempi scanditi dalla Costituzione.

Si dirà che tanto il Parlamento è un mero passacarte delle decisioni governative e sarebbe inutile perdere tempo per una decisione (la conversione in legge) evidentemente scontata; si risponde in modo piano, ma fermo, che non si deve assumere come fisiologico un comportamento che, in quanto inviso alla Costituzione, non può che essere stigmatizzato come patologico, pena il rischio di assuefazione.

Con tutti i decreti legge da convertire, si spera che il Parlamento abbia il tempo (in scienza e coscienza) di discutere su ciò che sta deliberando.