La decisione della presidente del Consiglio dei ministri di accettare l'invito del segretario del sindacato rosso non ha trovato il consenso unanime della Destra. Sull'opposto versante politico, invece, sembra dominare il solito integralismo settario. Nel 1984, i socialisti di Craxi fischiarono il "cugino" Berlinguer
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L’intervento di Giorgia Meloni al Congresso della Cgil a Rimini ha suscitato molto clamore, ma forse per motivi sbagliati. C’è infatti chi ha sottolineato il carattere “epocale” dell’evento, attribuendo il merito allo “straordinario coraggio” di Giorgia Meloni o al segretario Maurizio Landini, a seconda dei punti di vista.
Ma ci sono state anche reazioni meno entusiastiche, anche da Destra. Secondo l’illuminatissimo parere di Nicola Porro la decisione di Landini, definito misteriosamente «uno degli ultimi comunisti duri e puri rimasti in circolazione» (ahahah, buona questa), che ha invitato Meloni all’assise sindacale di Rimini, è stata determinata dalla sua volontà di «fare il democratico per attirare su di sé un’attenzione che nella normalità non avrebbe» e l’accettazione della assai relativa “sfida” da parte di Giorgia Meloni è stata una “follia”, nel senso buono si intende. Si potrebbe osservare che Maurizio Landini non ha bisogno di “fare” il democratico, perché appartiene ad un’organizzazione che con la democrazia ha molto più a che fare di quanto i Fratelli d’Italia non avranno mai, ma non è questo il punto.
Quel poco che resta della mitica “base operaia e popolare” della CGIL ha infatti manifestato sconcerto, malumore e protesta per l’invito, definito a giusta ragione, “una bravata” a vuoto di Maurizio Landini, minacciando fischi per la premier ed abbandono della sala dei congressi per non assistere ad un comizio forse non definibile “neofascista” in senso stretto, ma certo di pura propaganda governativa ed in ogni caso di destra. «É uno psicodramma, che goduria!» ha gongolato Porro all’unisono con tutta la stampa di destra prima dell’evento.
E, poiché l’intrepida premier non si sarebbe lasciata “intimidire”, Nicola Porro ha aggiunto che sarebbe stato meraviglioso vedere «i paladini della democrazia, quelli che si ritengono gli unici garanti della Costituzione, impedire di parlare alla presidente del Consiglio». Più avanti, Porro si è prodotto in una livida e scomposta invettiva contro i “compagni”, accompagnata da una enfatica quanto grottesca dichiarazione di ammirazione per la presidente del Consiglio e da un falso storico: «Eh sì, cari compagni, sarebbe meraviglioso vedervi gettare la maschera e mostrarvi per ciò che siete, degli estremisti (…) intolleranti e indisponibili al confronto, se non altro da voi richiesto, forse nella speranza di un rifiuto da sbandierare» così ha scritto «Ma voi non sapete che Giorgia Meloni non scappa, non è mai scappata neppure quando rischiava di ricevere sprangate in piazza dagli amici della CGIL. (…) Una cosa è certa fin d’ora. Chi è di Destra non teme il confronto con altre idee, anche opposte alle sue. A Sinistra siamo sempre fermi all’integralismo settario: noi siamo noi e voi siete impresentabili».
Questo livore si è però rivelato per quello che è realmente, cioè un miserabile pregiudizio ideologico da fascista, perché, purtroppo per Porro e per la stampa di destra, non c’è stata alcuna contestazione, se non un infinitesimale lancio di peluches ed un patetico canto di Bella ciao, anzi, quando la presidente del consiglio ha condannato l’assalto alla CGIL di qualche anno fa, c’è stato addirittura un timido applauso. Dopo che Giorgia Meloni ha superato la dura “prova” del suo comizietto di propaganda, ovviamente “indenne”, la stampa di Destra ha quindi dato prova di tutta la sua disonestà intellettuale, trasformando i “compagni” cattivi di Porro in fessi da deridere con titoli del tipo “Meloni doma la Cgil nella tana dei comunisti”.
Però adesso basta con questa spazzatura fascista e parliamo invece della pochezza del sindacato. Cortesia, garbo, gentilezza, educazione ed ospitalità sono tutte buone qualità umane nei rapporti personali, non sempre lo sono nei rapporti politici, ma certo se si invita qualcuno a casa propria si hanno dei doveri di ospitalità, che implicano il non fischiare il proprio ospite, a meno di non ripetere la storica cafonata dei socialisti di Bettino Craxi, che al loro congresso di Verona, nel 1984, invitarono il “cugino” comunista Enrico Berlinguer e poi lo cacciarono a fischi.
In quell’occasione Craxi disse: «Mi dispiace che il congresso sia venuto meno ad un dovere di ospitalità nei confronti del compagno Berlinguer. Se questo è successo, vuole dire che è avvenuto per una ragione grave. Con quei fischi, infatti, ci si è indirizzati non ad una persona, ma ad una politica, che forse questa persona ha interpretato con maggiore tenacia di altri. E se i fischi sono stati un segnale politico che si è manifestato contro questa politica, io non mi posso unire ai fischi solo perché non so fischiare».
Queste parole, per arroganti che fossero, avevano una logica, una logica perversa quanto si vuole ma netta e chiara: la critica di una politica che, a torto o a ragione, non si condivideva. Ora, fatto salvo il ripudio della scorrettezza formale del vecchio PSI craxista, il punto è proprio questo: la CGIL condivide o non condivide la linea del governo? Perché, se il governo Meloni è ancora la sua controparte, non c’era alcuna necessità di fare inviti, se invece non lo è più, allora è tutto un altro discorso. Noi preferiamo credere che Maurizio Landini ed il gruppo dirigente della CGIL non condividano la linea del governo e che l’avere regalato a Giorgia Meloni una platea così preziosa sia stato solo un clamoroso autogol, che è indice però di una preoccupante insipienza. Se invece fosse vero il contrario, beh, le cose diventerebbero gravi ma non serie.
In ogni caso è stato immensamente triste vedere una ex fascista discutibilmente recuperata alla democrazia pontificare, con un linguaggio assertivo da maestra elementare nel senso peggiore del termine, dalla tribuna del più antico sindacato della classe operaia italiana, un sindacato che, per quanto svenduto da Luciano Lama in poi, è stato l’organizzazione di Giuseppe Di Vittorio, cioè di una delle figure più limpide dell’antifascismo italiano.
E non si dica che i tempi sono cambiati e che i simboli del passato sono ormai solo forma, non solo perché la peggiore stampa di destra, ammesso che ce ne sia una migliore, dice tutt’altro che questo, ma soprattutto perché l’esperienza ci insegna che la forma rimanda sempre alla sostanza.