Esiste l’eguaglianza davanti alla morte? La risposta dovuta è no, e lo dimostra (ancora una volta) l’atto di disobbedienza civile di Marco Cappato, dell’Associazione Luca Coscioni, che – è notizia di ieri – ha accompagnato il signor Romano in una clinica svizzera per porre fine con l’aiuto a morire alle sue sofferenze ritenute non più tollerabili.

Il signor Romano aveva 82 anni e da due era affetto da Parkinson atipico, malattia altamente invalidante (che gli aveva già paralizzato gli arti) e progressiva (che lo avrebbe portato a breve a una alimentazione forzata), ma che al momento non era tenuto in vita da nessun trattamento di sostegno vitale.

Vi sono comportamenti che si assumono perché si ritengono giusti, anche se sono vietati dal Codice penale, massima norma che vieta una condotta in quanto esecrata dall’ordinamento giuridico. Si disobbedisce a una legge pur andando incontro a una pena (nel caso che ci interessa il massimo edittale è di 12 anni) per poi tentare di smuovere tutti quei processi che potrebbero portare a una rivisitazione legislativa o, addirittura, all’eliminazione della norma ritenuta ingiusta. Ma lo si fa senza avere la certezza di riuscire nell’obiettivo. Ogni atto è consapevole e la persona che lo compie accetta (diversamente non potrebbe) la conseguenza prevista dal Codice penale.

Ancora una volta ci troviamo dinanzi alla straziante decisione di un uomo che ha ‘deciso di decidere’ sul proprio fine vita prima di essere costretto da un male irreversibile e non controllabile a una fine con sofferenze insopportabili, in condizioni fisiche e mentali ritenute indegne.

Si tratta ancora una volta di quello che sovente viene definito con una cinica espressione ‘turismo dei diritti’; questa volta, però, di un diritto infelice, ovverosia di quello che permette di esercitare all’estero ciò che in Italia viene punito dalla legge penale.

Infatti, in Italia non sempre e per tutti esiste il diritto al proprio fine vita quando un paziente è incurabile allo stadio terminale o affetto da una forma irreversibile di patologia, gravemente invalidante e con prognosi infausta, senza alcuna possibilità di recupero e/o di miglioramento, e le cui sofferenze fisiche e mentali – rilevata anche l’inefficacia di trattamenti alternativi – sono considerate insopportabili tanto da giudicare inaccettabile la qualità della vita che si è costretti a vivere.

In Italia possono accedere all’aiuto al suicidio solo coloro che si trovano in quelle determinate condizioni che per la Corte costituzionale (definite nel noto caso di Dj Fabo, sent. n. 242/2019) sono in grado di scriminare il reato, vale a dire di far ritenere lecito il comportamento oggetto di giudizio.

In Italia può chiedere l’aiuto al suicidio solo la persona che è «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale» nel quadro di una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione del trattamento del fine vita siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.

E per chi si trova nelle stesse condizioni descritte tranne che per la dipendenza da un trattamento di sostegno vitale? In questo caso la decisione sul fine vita non gli appartiene. Non tutti sono uguali davanti alla morte.

La decisione del signor Romano (la stessa presa solo qualche mese fa dalla signora Elena Alterima) - e che ha comportato la conseguenza di morire in solitudine (questa la denuncia della figlia) in una clinica Svizzera - smuove le coscienze e denuncia una irragionevolezza, un vulnus costituzionale della nostra legge (Codice penale fascista). Il suo stato di malato era "equiparabile" a quello di Fabiano Antoniani e di Federico Carboni nella richiesta di morte dignitosa, ma a questi ultimi non del tutto assimilabile per il fatto di non essere dipendente da "alcun trattamento sanitario".

Il "caso" non rientrava, quindi, nella tipizzazione dei casi ammissibili così come "costruiti" dalla Corte, e rimane tuttora un caso irrisolto che chiede di essere preso in considerazione dalla magistratura e dalla politica. Con l’inizio della XIX Legislatura, sembra fatalmente precipitare nell’oblio qualsiasi intento di discussione sui diritti civili (e sociali) che pur sembrava animare il Parlamento sciolto la scorsa estate, nel quale si tentava di discutere di aiuto al suicidio, come di ius scholae, di riconoscimento della protezione delle persone omosessuali, di parità salariale tra uomo e donna, di disciplina sul cognome materno, così come di una disciplina organica sulle adozioni, sull’ergastolo ostativo e ancora sulle norme vigenti in materia di residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) nei confronti degli autori di reato affetti da patologie psichiche; e si potrebbe continuare senza soluzione di continuità. Ora le emergenze sono ben altre, come ci suggerisce il decreto-legge assunto per limitare i pericolosi e numerosi rave-party.

La vicenda drammatica del signor Romano turba in modo diretto le nostre coscienze, non ci lascia ripari, non ci permette di girarci da un’altra parte. Lo si dice così, in modo forte, perché è davvero inaccettabile che i diritti civili siano confinati a una disobbedienza civile, solo perché il Parlamento decide di non parlarne. Ma giungerà il momento che la Corte costituzionale sarà chiamata ancora una volta a giudicare il silenzio parlamentare e davanti a essa si porranno due questioni, entrambe terribili e che richiameranno all’attenzione quel noto paradosso - esemplarmente descritto da Stefano Rodotà - della non «eguaglianza davanti alla morte».

Perché, lo si ripete, non si è tutti eguali; vigono ancora divieti assoluti all’espressione di autonomia che negano in radice la richiesta di un soggetto (a prescindere dalla presenza o meno di un sostegno vitale) di porre fine alla propria esistenza ritenuta non più degna di essere vissuta, nonché determinano la “trasformazione” del diritto alla vita in un dovere di vivere - non imposto dalla Costituzione - e non seguono la più ampia interpretazione dei principi di libertà, eguaglianza, solidarietà e dignità.

Nel nostro ordinamento, il principio di autodeterminazione, con limiti, è riuscito (giurisprudenzialmente) a trovare un suo riconoscimento anche nell’ambito del fine vita, ma non per tutti i casi della vita e della malattia. Ne rimangono fuori due: il primo - per come visto -, quando non si è tenuti in vita da un trattamento sanitario e, per mancanza di tale condizione, non si ha diritto all’aiuto al suicidio; l’altro invece - quello dell’omicidio del consenziente (l’eutanasia), punito ancora una volta da una legge d’epoca fascista - discrimina chi è colpito da una malattia ancora più debilitante. Vige, infatti, anche la spietata disparità di trattamento che si manifesta verso chi, pur potendo richiedere l’aiuto al suicidio (perché si trova nelle ipotesi previste dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 242/2019), non riesce a compiere il gesto ultimo e definitivo di darsi la morte per mettere fine a una vita considerata come non degna di essere vissuta. Alcune gravi patologie non rendono sempre possibile che l’aiuto al suicidio possa concretizzarsi nel massimo atto “autolesionistico” (nel caso in cui, per esempio, si è costretti da paralisi totale), tanto che l’eutanasia (che nel nostro ordinamento rientra nell’omicidio del consenziente) si prospetterebbe come l’unica pratica in grado di dar corso alla volontà del paziente di porre fine alle proprie sofferenze (incurabili) quando questi si trovi in una condizione di assoluto impedimento fisico.

Non prendere in considerazione queste ipotesi significherebbe continuare a non dare una risposta a chi pone la medesima domanda di fine delle sofferenze, dimenticando che l’art. 3 della nostra Costituzione sancisce il principio di eguaglianza, per il quale tutti sono eguali «senza distinzione di ... condizioni personali».

Tale conclusione è ulteriormente sostenuta dalla sentenza (causa Mortie c. Belgique) dello scorso 4 ottobre della Corte europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che ha per la prima volta giudicato la legislazione in tema di eutanasia, valutandone nel merito la conformità a Convenzione ed evidenziando con riguardo al trattamento che questo deve essere sottoposto a un controllo preventivo o a uno successivo che non presenti criticità o debolezze.

Dicevamo che non prendere in considerazione le ipotesi innanzi descritte significherebbe continuare a non comprendere (o a non interessarsi de) la sofferenza indicibile di chi soffre in un corpo eretto a carcere, di un corpo che è trasformato dalla malattia che lo costringe a un sofferenza senza sosta, se è vero che - come con pregnante efficacia descrive una fra le più grandi esponenti della letteratura contemporanea (Virginia Woolf, Sulla malattia, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, p. 9) - il «corpo interviene giorno e notte; si smussa o si affila, si colorisce o scolora […] La creatura che vi sta rinchiusa può solo vedere attraverso il vetro, imbrattato o roseo; non può separarsi dal corpo come il coltello dalla guaina o il seme dal baccello per un solo istante».

*costituzionalista Unical-DESF