A dicembre scadranno i mandati di altri tre togati i cui sostituti dovranno essere designati dalle Camere in seduta comune. Nel caso in cui il 30 ci sia l'ennesima fumata nera, saranno 4 i nomi da indicare: con un poker del genere perderebbero tutti
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Per dovere costituzionale, la Consulta è composta da 15 giudici designati in maniera paritaria dai tre poteri: giudici supremi, Parlamento in seduta comune e Presidente della Repubblica. Da undici mesi, però, il massimo organo della giustizia costituzionale italiana risulta composto da soli 14 membri, e ciò perché il Parlamento continua a non adempiere a un preciso e chiaro obbligo: eleggere un giudice costituzionale «entro un mese» dalla scadenza del mandato del giudice uscente.
La ragione per cui non si è ancora proceduto all’elezione del giudice in sostituzione della presidente Silvana Sciarra (che ha terminato il mandato nel novembre 2023) risiede nel fatto che i tempi del Parlamento non coincidono con quelli previsti dalla Costituzione. Il che significa che il termine del mese a disposizione non è considerato come un tempo congruo al fine di giungere a un patto compromissorio basato su logiche spartitorie (di lottizzazione) fra le stesse forze politiche.
Il presidente del Parlamento in seduta comune non ha ritenuto di procedere immediatamente con una convocazione a oltranza dell’organo che presiede, così come la dottrina costituzionalistica più attenta da tempo auspica, tanto che, col passare dei mesi - e, soprattutto dopo le parole pronunciate dalla presidente Giorgia Meloni durante la conferenza stampa di fine anno 2023 con le quali si faceva intendere che i giudici questa volta sarebbero spettati alla destra in una perfetta logica di spoils system -,è stato sempre più chiaro che la volontà politica fosse quella finalizzata al pacchetto (di più giudici) e che i posti vacanti sarebbero rientrati nella disponibilità di chi aveva vinto le elezioni perché questa - sempre per la presidente - è democrazia.
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E ciò è apparso sempre più evidente anche da quando i partiti che sostengono l’attuale maggioranza hanno cercato di posticipare il più possibile l’elezione del nuovo giudice, estendendo nelle loro intenzioni il termine fino a 13 mesi, almeno fino al 21 dicembre 2024, termine in cui scadranno i mandati dei giudici Barbera, Modugno e Prosperetti. Da quella data, il Parlamento in seduta comune dovrà eleggere tutti e quattro i giudici, poiché quelli in scadenza sono stati eletti tutti da quello stesso organo. E non era mai accaduto che a uno stesso corpo eligente spettasse il rinnovo quasi completo di un terzo della composizione della Corte.
Che il ritardo con cui il Parlamento in seduta comune procede nell’elezione dei giudici costituzionali rappresenti una costante non vuol dire che tutto ciò debba essere accettato come prassi e debba avvenire nell’indifferenza generale delle istituzioni, in particolare del Parlamento in seduta comune e del suo presidente, che è il presidente della Camera dei deputati.
È evidente che la politica non può piegare il testo costituzionale ai propri fini e alle proprie esigenze. Ciò vale a maggior ragione se si considera che la situazione in cui la Corte è costretta a lavorare a ranghi ridotti non è certamente meno grave rispetto a quella in cui non riesca al verificarsi dello stallo del suo funzionamento. Un collegio incompleto (anche per una sola cessazione non seguita da una rapida elezione) vìola il valore fondamentale alla base del quorum strutturale che è di 11 giudici. La Corte, così composta, non è in grado di svolgere pienamente la sua funzione, mancando dell’apporto completo di tutte le competenze, esperienze tecniche, sensibilità culturali e ideali che convergono nella predisposizione della decisione elaborata in camera di consiglio.
La violazione continuativa del principio di completezza può causare oltre al rischio dello stallo una serie di problemi: sovraccarico di lavoro, accumulo di arretrati e possibili divisioni interne alla Corte. Queste divisioni possono derivare da una presidenzializzazione delle decisioni, poiché una Corte composta da 14 giudici può arrivare a una decisione risolutiva solo grazie al voto del presidente, che si esprime per ultimo con un voto decisivo in caso di parità.
Si dice che i ritardi siano dovuti alle maggioranze qualificate, ma chi lo afferma è affetto da miopia costituzionale. La funzione di maggioranze elevate (2/3 dei membri del Parlamento in seduta comune nei primi 3 scrutini, 3/5 per i successivi) è quella di spoliticizzare l’elezione. Tutto al contrario di quello che si fa da sempre (dal 1953) e in modo particolare da undici mesi a questa parte.
A tale ritardo e con la più che possibile situazione di stallo in cui potrebbe trovarsi la Corte nel prossimo gennaio (con la mancanza di 4 giudici anche un serio raffreddore che impedisca la partecipazione in udienza di un solo giudice non farebbe lavorare la Corte) si sono susseguiti moniti da parte del Presidente della Repubblica e della stessa Corte costituzionale. Ma nulla è cambiato se non per qualche seduta andata praticamente deserta. Lo scorso 2 ottobre è stato pubblicato un comunicato della Corte in cui si rendeva noto che il prossimo 22 novembre si discuterà dei ricorsi (ben scritti e ben fatti, tra l’altro) presentati da diverse Regioni contro la legge Calderoli sul regionalismo differenziato di stampo leghista (quello della prima ora). Da quel momento, un sms - inviato dalla presidente Meloni ai componenti della sua maggioranza con richiesta di presenza al voto - ha smosso le acque e si è posto all’attenzione pubblica un problema che, lo si ripete, doveva essere affrontato 11 mesi fa: l’incompletezza della Corte costituzionale. Lo si è fatto, però, politicizzando l’elezione di chi dovrà discutere di materie importanti, come l’ammissibilità del referendum la cui sentenza giungerà il prossimo 20 febbraio, e come le questioni dilemmatiche su cui il Parlamento ha deciso di non decidere proprio attribuendo de plano alla Corte l’obbligo di risposta (fine vita, procreazione medicalmente assistita, protezione dei bimbi e delle bimbe nate con la tecnica della maternità surrogata, …).
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Affinché la Corte svolga il suo altissimo compito è essenziale che per il buon esito del giudizio costituzionale questo sia fondato sulla piena collegialità, la sola in grado di garantire la funzione di sintesi e di equilibrio delle sue pronunce derivante non solo dalla diversità dei soggetti a cui è affidata la nomina, ma anche dalla composizione mista dell’organo, che unisce aspetti tecnici e giuridici a quelli politici, assicurandone in tal modo il pluralismo in termini di esperienze, professionalità e sensibilità.
Per tutte queste ragioni, in primis per la ratio che sottostà ai quorum di elezione, si spera che il prossimo 30 ottobre (data della prossima convocazione per l’elezione del giudice mancante) il Parlamento in seduta comune abbia un sussulto se non d’orgoglio almeno di rispetto del principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato ed elegga un giudice che non sia il frutto di una spartizione ma il risultato di una condivisione (nobile).
Se il 30 ci sarà l’ennesima fumata nera, allora il rischio di stallo sarà davvero reale: fra poco le Camere saranno impegnate nella discussione di un testo (la legge di bilancio) anche se poi, molto probabilmente, l’ultimo giorno prima della sua approvazione il Governo proporrà un maxiemendamento su cui porrà la questione di fiducia. La prima udienza pubblica del 2025 per la Corte costituzionale è fissata il 14 gennaio. Considerando che il calendario tra la sessione di bilancio e le festività natalizie è già estremamente fitto e che mai un giudice di estrazione parlamentare è stato eletto nel rispetto del termine del mese dalla vacanza, è fondamentale affrontare immediatamente il rischio associato allo stallo del funzionamento della Corte. È ora che chi le ha eserciti responsabilmente le proprie competenze e anticipi il più possibile le implicazioni di una situazione potenzialmente troppo grave e allarmante, anche solo a prenderla in considerazione.
Si chiudono queste brevi note (polemiche e poco ireniche) stigmatizzando ancora una volta la possibilità, anche solo teorica, che il momento elettorale che dovesse coinvolgere tutti e quattro i giudici veda come unici protagonisti le forze governative. Con un poker del genere perderebbero tutti.
*costituzionalista, DESF-UniCal