Ci sono molte frasi che potrebbero essere citate e riconducibili alle opere di Edmodo De Amicis, ognuna delle quali nasconde un significato profondo, quasi a voler essere sintesi di una visione filosofica ed etica del nostro vissuto come italiani. Ce ne sono tante in Cuore e, nel leggerlo e rileggerlo più volte, scopro argomenti e motivazioni nuove che spiegano sempre di più perché questo autore ligure dev’essere collocato sul piano più alto di un sincero patriottismo postrisorgimentale. Una collocazione che si distingue dal ritenerlo magari un seguace di un D’Azeglio, nobile e elitario, o quale affascinato cultore di un utopistico Mazzini. ù

 

De Amicis vuole illudersi che l’Italia fosse già cosa fatta dopo il 1861, e poco importano le forme istituzionali assunte, quella monarchica, e le stesse guerre di partito seguite all’Unità. La scelta della scuola e del maestro non è una scelta politica perché non si cade nella celebrazione di un’ipocrisia di classe, magari ostaggio di un approccio sociologico che oggi la collocherebbe chissà in quali percorsi di discussione politicamente corretta (ammesso che il corretto nella sua accezione semantica e non giornalistica abbia ancora un senso).

È una scelta laica di una scuola pubblica, di tutti, che è un microcosmo dell’Italia fatta di opportunità non uguali per tutti, di diversità culturali, di diverse interpretazioni della vita e del Paese, è vero! Ma è anche la strada segnata nel programma di un anno scolastico d’altri tempi che indica come superare proprio le differenze, affidando al merito e alla tenacia del ragazzo, che prescinde dal valore degli abiti indossati o dalla possibilità di acquistarsi un quaderno nuovo, l’abbattimento di qualunque barriera.

La classe tende a dimostrare l’esistenza di un sentimento di omogeneità che supera ogni percezione egoistica del proprio particolare e della propria condizione, per affermare l’idea di una comunità nuova. Una piccola comunità nazionale che si svolge, si misura, si sperimenta nel laboratorio dei banchi di legno senza le rotelle di oggi, ma solidi e fermi nel testimoniare l’esserci, che si riconosce in valori condivisi e che, per questo, supera ogni ostacolo, ideologico o sociale che sia.

Cuore non è nazionalismo, è amore per un’idea di un popolo che vuole dimostrare, per quanto politicamente più giovane, di sentirsi alla pari per storia, cultura e esperienze con altri popoli e nazioni, affidando all’unità delle sue differenze la sua forza. Dall’eroismo del Tamburino sardo a quello della Piccola vedetta lombarda, dal piccolo e malvestito Coraci, il ragazzo calabrese, al benestante Derossi - leader riconosciuto tale, senza condizionamento alcuno, dalla maggioranza della classe e poi rispettato anche da quelli che non lo avevano votato - al Piccolo muratorino e altri piccoli, si fa per dire, protagonisti, tutto si svolge su una continuità di intenti: l’affidare il ruolo di italiani ai ragazzi perché, molto più degli adulti, rispondono sinceramente alle sfide e alle sollecitazioni.

Perché più degli adulti i ragazzi sono orientati al superamento delle differenze quanto alla contestazione delle regole ma, anche, i più sinceramente veri nel difendere le norme a condizione di essere convinti della loro bontà e se considerate necessarie per difendere un’idea di comunità che non ha colore, prezzo o egoismo ai quali piegarsi.

In Cuore c’è tutto quello che avrebbe dovuto esprimere una nazione mai giunta alla sua piena maturità. C’è il ricco e il povero. C’è il più capace e il meno capace. C’è il rispetto per chi ha più abilità e il dovere, per chi si pone alla guida della classe, di sentirsi responsabile per coloro che sono meno fortunati, o che non godono delle stesse qualità. Perché se uno non potrà MAI valere uno (mi spiace deludere il mantra normalizzante, omologante e destrutturante pentastellato) è perché chi più sa ha il dovere morale di guidare e sostenere il proprio fratello e sorella, aborrendo ogni misero egoismo di successo personale, per permettergli di raggiungere altri traguardi, per aiutare a far migliorare chi, giustamente, non vuole stare indietro a patto che questi dimostri di avere l’umiltà di riconoscere i propri limiti e, semmai, da questi partire.

Cuore è la rappresentazione di un’Italia che doveva essere ciò che non è: un Paese che non ha ancora oggi compreso che nessuno può essere lasciato indietro nelle opportunità, o reso destinatario di inefficienze o di incapacità altrui e pagarne il prezzo, mettendo a rischio libertà e diritti. Cuore è, così, la negazione di un’idea di nazione che non può premiare il più scaltro, giustificare le angherie del potente di turno, tollerare il più opportunistico disimpegno, celebrare il facile guadagno o emulare una spasmodica ricerca del successo individuale.

Cuore è il rifiuto che si possa costruire un grande Paese nella ritualità della corsa al potere, nella mortificazione e discriminazione politica e mediatica delle intelligenze che livella liberi pensieri e sentimenti per difendere luoghi comuni, o per favorire l’affermarsi di un’acritica prospettiva di un pensiero frutto di una supponente celebrazione del sé. Un risultato mortificante, quest’ultimo, che neanche le esperienze totalitarie del Novecento nonostante il dramma di interi popoli, sono riuscite a consolidare nel tempo.

Cuore sottende quel sentimento nazionale che è puro, vero, condiviso e che non si dimostra solo nelle ricorrenze dove si consuma una narrativa di circostanza in cui si ricordano gli eroi di una nazione che ad essi ha affidato il riscatto dalle sue fragilità, dalle sue debolezze se non dalle ambiguità storiche. Cuore è la celebrazione dell’eroismo quotidiano, di un maestro che sente su di sé la responsabilità di chi è il primo testimone di ciò che è o dovrebbe essere l’Italia.

Cuore è il monito di come e in che termini una nazione può essere vittima di una sconfitta ancor più peggiore di quella subita in una guerra: quella data dall’incapacità di dare futuro, opportunità alle proprie generazioni, di reagire alle difficoltà con dignità e senza per questo dover barattare diritti e libertà anche a chi ritiene di governare asseritamente nell’interesse di tutti. Dagli Appennini alle Ande, l’amore di un ragazzo, la ricerca di un affetto o la perdita forzata di un padre nella realtà dell’emigrazione sembrano oggi solo contorni per convegni o ricordi di comodo che non considerano che essere parte di una comunità significa identificarsi in una comune lingua, cultura e valori quali distinguo necessari per confrontarsi con l’altro e per non obliare se stessi nell’indistinto omologante.

La verità di Cuore è negli sguardi di chi ci ha preceduti, negli occhi e nelle parole dei nostri maestri di qualche decennio fa, dove ancora sembrava sopravvivere qualcosa di Cuore. Era un cuore fatto di affetto, di stima, di riconoscimento del valore e della volontà di emulare il più bravo per valore e non per furbizia. Era voglia di reagire ad ogni appiattimento culturale diretto a svuotare di contenuto ogni merito per impedire l’affermarsi di quella mediocrità egoistica e senza scrupoli che oggi, abbattendo il valore della cultura e del sapere, sembra essersi impadronita di un Paese ostaggio di una paura diffusa per incapacità di ognuno di noi di reagire e testimone di un’apatia utile alla conservazione di un’interpretazione grottesca di un potere che sembra indiscusso e indiscutibile.

Cuore è il vero, unico manifesto di un’Italia unita, forse con più valore fondante dello stesso Statuto Albertino o della Costituzione repubblicana.

Cuore, infatti, ha una sua forza costituente, perché pone in narrazione i valori sui quali si costruisce la nazione e mette alla portata di tutti le ragioni dell’architettura istituzionale dell’Italia. La forza di Cuore è tale e tanta che neanche il fascismo ne fece un libro di riferimento, perché ritenuto troppo semplice, non adatto ad una visione apologetica di una mistica imperialistica. Poco indicato, insomma, per un’esegesi del potere franata nel suo delirio finale in una ennesima guerra, aprendo le porte a quella divisione del Paese tra fascisti e comunisti, o tra antifascisti e anticomunisti, che ha dominato e ritardato ancora una volta il compimento di un disegno di nazione.

Cuore è l’Italia che doveva essere e che oggi, nell’era della digitalizzazione delle nostre vite affidate alle rigide valutazioni algoritmiche dei nostri gusti e delle nostre sensazioni, rischia di abbandonare se stessa senza aver raggiunto un grado di compiutezza tale da avere gli anticorpi utili per prevenire derive autocratiche, celatesi dietro il velo di un’apparente democrazia che normalizza e non distingue tra chi deve e chi non dovrebbe. Cuore è un Libro per ragazzi si! - ma sono i ragazzi del Novantanove dell’Ottocento caduti a Vittorio Veneto o i nostri giovani del Novecento, noi!, che credettero e/o credemmo in un’idea di Italia, presi dall’una o dall’altra ideologia e ingannati per fini di potere altrui piuttosto che per ideali condivisi, che negli Anni Settanta del secolo scorso si sono confrontati sulle piazze d’Italia convinti che il rosso o il nero fossero colori di verità e non, al contrario, tinte di morte e di sconfitta di un popolo. Cuore è il libro dei ragazzi di ieri che erano i nostri nonni, padri, madri dovunque in un Paese spesso ingrato. Ma Cuore è anche un Libro per adulti. Per cittadini maturi e consapevoli.

È il più bello, compiuto, completo Manifesto dell’Italia ideale, anzi, nello stesso tempo idealizzata e realisticamente definita nel suo poter essere o nel suo non essere mai più. Cuore è un monito sempiterno al nostro futuro, che nella sua narrativa a portata di chiunque non si abbandona alle lusinghe manipolatorie di oggi. È il testamento ideologico – questa volta ci sta! – di un De Amicis che, forse, non si rese conto di lasciare agli italiani ancora da fare, e forse non fatti, la più bella testimonianza di cosa doveva essere l’Italia e cosa non è ancora oggi. Un sogno racchiuso, nella sua disarmante verità, nella lettera del martedì 14 giugno e della quale non si vedono degni, sinceri e capaci eredi nelle stanze di quel potere che pretende, con una certa superbia, di volerci indicare la via della nostra vita.

*Giuseppe Romeo, giornalista e saggista