Il libro di Rocco Lentini su Giuseppe Valarioti diventa un “caso”. L'analisi dell'autore
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Non amo le piazze virtuali e non uso i social, preferisco l’odore della carta egli archivi impolverati. I documenti sono sempre stati alla base delle mie ricostruzioni storiche, ricerche apprezzate a livello nazionale (non ultimo il Premio Acqui Storia, il più importante premio italiano per la saggistica storica, attribuitomi nel 2020 per il volume inedito “Intellettuali e fascismo. Il caso Calabria”).
Provo a svolgere con coscienza, libera da condizionamenti di “posizione”, le ricostruzioni storiche, anche di vicende e fatti vissuti, con il massiccio utilizzo dei documenti, senza disdegnare l’insegnamento dell’École des Annales per formulare ipotesi esplicative suggerite dalle correlazioni tra fenomeni che fanno riferimento ad aree sovrapposte e discordanti, e di Hans-Ulrich Wehlerdella scuola di Bielefeldal fine di promuovere la conoscenza della storia sociale e della storia politica mediante un approccio quantitativo e i metodi della scienze politiche e della sociologia.
Lo faccio da quarant’anni e i risultati di queste ricerche, confluiti in Convegni nazionali e internazionali di prestigiose università italiane, decine di volumi e centinaia di saggi pubblicati sulle maggiori riviste scientifiche del Paese, ne sono testimonianza.
Sbaglio però. In un mondo di piazze virtuali in cui, qualcuno in buona fede, qualche altro per “stare sul pezzo” o legarsi ad autorappresentazioni positive acritiche, alimenta la catena dei “tuttologi” e la visione distorta di eventi dei quali è stato protagonista, rimanendo ancorato a superate visioni del mondo senza comprendere che è cambiato e che non tutto quello che ha vissuto è “rappresentazione di reale” ed è, sovente, mediato - come sostiene l’antropologo Michael Herzfeld - dal “riconoscimento di quegli aspetti dell’identità culturale, considerati motivo d’imbarazzo con gli estranei, ma che nondimeno garantiscono ai membri la certezza di una socialità condivisa”.
Tuttavia, “o siamo capaci di sconfiggere le idee contrarie con la discussione o dobbiamo lasciarle esprimere. Non è possibile sconfiggere le idee con la forza, perché questo blocca il libero sviluppo dell’intelligenza”, una tesi, supportata dai documenti, va combattuta con documenti opposti, non con la memorialistica che sconta il difetto della “selezione” tra ciò che è conveniente dire e ciò che è conveniente tacere per collocare al meglio la “pratica dei vissuti”.
Sbaglio. Sbaglio anche a non utilizzare i social perché mi autoescludo dall’opportunità di riconoscere che i cittadinia volte diventano, attraverso la self communication - per usare un inglesismo tanto di moda oggi -fonte informativa utile per la diffusione di contenuti tali da soddisfare i propri bisogni comunicativi, ma anche di rivelare, consapevolmente o meno, verità nascoste.
Devo ad attenti comunicatori, quale io non sono, la segnalazione del sito Facebook dell’amico On.le Ninì Sprizzi, già presidente del Consiglio regionale della Calabria.
Dopo avere seguito la polemica innescata dallo stesso sul social media e tutti i post allegati vengo ad apprendere, per esempio, che intellettuali come Jean Paul Sartre, Nobel per la letteratura nel 1964; Roland Barthes, uno dei maggiori semiologi del mondo che nel 1968 prese le distanze dal movimento studentesco; Michel Foucaultfilosofo della liberazione dell’uomo e straordinario pensatore della “microfisica del potere” (il potere non è qualcosa che si divide tra coloro che lo possiedono o coloro che lo detengono esclusivamente e coloro che non lo hanno o lo subiscono. Il potere deve essere analizzato come qualcosa che circola, o meglio come qualcosa che funziona solo a catena. Non è mai localizzato qui o lì, non è mai nelle mani di alcuni, non è mai appropriato come una ricchezza o un bene); filosofi del calibro di Felix Guattari (espulso dal partito comunista francese per le sue posizioni antistaliniste) e Gilles Deleuze il cui contributo alla storia delle idee è universalmente riconosciuto, “inappropriatamente- scrive Sprizzi - hanno finito per fare un favore alle Brigate Rosse, e, nella sostanza vera, favorirono il prevalere della reazione in Italia”. Un concetto davvero singolare sul quali farebbe bene Ninì a riflettere rileggendo quegli anni eil pensiero straordinario di questi autori.
Apprendo anche che nella Piana non ci sarebbero stati, negli anni Settanta, movimenti alla sinistra del Pci, basterebbe ricordare la “radiazione” del gruppo del Manifestoe la successiva nascita del Pdup, che nel 1979 riuscì a fare eleggere in Calabria, con il contributo determinante della Piana, il deputato Alfonso Gianni; la forte presenza di Democrazia proletaria o la vicenda di Cittanova, dove oltre cento giovani che contestano Adriano Pappalardo alla festa dell’Unità, vengono allontanati dagli iscritti al Pci, in testa il segretario della sezione, a colpi di tavole staccate dal “recinto” della festa nella Villa Comunale. Quello che avvenne nel Pci e la “pressione” del Pci sulla Cgil delle componenti, in quegli anni, nella Piana, è davvero tutto da scrivere. Basterebbe, da sola, per comprendere, l’intervista rilasciata recentemente da Carmelo Pinto, con un trascorso in “Servire il Popolo” e poi approdato alla Cgil di Gioia Tauro, e le ragioni per la quale ha sbattuto la porta del sindacato.
Certo che ci sono stati, e fa bene Sprizzi a ricordarli, grandi militanti comunisti che nella Piana hanno tenuto alta la bandiera della Cgil e del partito durante il fascismo, nel dopoguerra, negli anni Sessanta e Settanta, ma come dimenticare le divisioni del Pci sul polo siderurgico e sulla centrale; gli scontri nella Federazione, la gazzarra dell’Adriano, gli errori, la lotta politica e le divisioni nel Pci regionale; la contrapposizione tra i gruppi dirigenti; e via di seguito.
Come si spiega che un Pci provinciale, complessivamente attestato su una linea di fermezza sulla lotta contro la criminalità, le testimonianze di coraggiosi compagni tra i quali lo stesso Ninì, e un collegio difensivo di tutto rispetto, con avvocati noti anche in ambito internazionale, non abbia inciso nel fare piena luce sull'assassinio di Peppe e, soprattutto, non abbia presentato appello alla sentenza di primo grado? Chi intervenne, e perché, per non proporre appello?
È del tutto evidente che sono stati commessi errori, si sono dimostrati limiti, si sono intrecciati interessi politici personali, per carità legittimi, ma di questo e dei rapporti nel e del Pci con il movimento del Settantasette, che non è identificabile nel Mezzogiorno con gli indiani metropolitani come fa grossolanamente Ninì (lo invito a leggere la mia relazione sul Mezzogiorno tenuta al Convegno organizzato dall’Università di Bologna-Forlì ora nel volume Da “non garantiti” a precari. Il movimento del ’77 e la crisi del lavoro nell’Italia post-fordista (a cura di Domenico Guzzo) edito da Franco Angeli nella collana Sociologia del lavoro, 2019), parleremo in altre occasioni.
Mi preme evidenziare, adesso, che l’intervento dell’On. Sprizzi reso pubblico sulla sua pagina Facebook (quei social, da me invisi!) ha avuto il merito di aprire una rete di discussione, nella quale è rimasto impigliato anche lui. È chiamato in causa, dal prof. Domenico Giovinazzo, che, senza colpa, essendo stato assolto in istruttoria, soffrì per il clima politico difficile di quei giorni. Dopo aver evidenziato di non “riconoscermi alcuna onestà intellettuale” nella ricostruzione storica, specificando di non avere letto il libro (!) - comprendo il dolore per la vicenda che indubbiamente lo ha segnato e per i suoi problemi di salute - rivolgendosi a Sprizzi scrive: “sono estremamente amareggiato e se avrò ‘a forza, terminati i motivi per i quali vado a Reggio, farò una conferenza stampa e dirò, tutto, chiamando in causa tutti gli attori del depistaggio, te compreso con Lavorato ed altri e ti ricordo l’incontro a casa mia in presenza di mia moglie mentre mi stavo preparando per partire per Bologna… Mussi sa tutto… e anche lui sarà chiamato in causa perché non ha rispettato gli impegni assunti. Sulla morte di Pino a Risarno (Rosarno) si sa tutto, esecutore e mandanti, tutti deceduti, politici amministratori socialisti sui quali non si è mai voluto indagare…”.
E ancora “…mi sono rifiutato di venire in Federazione, dove avevate insieme a Pangallo e fantò (Fantò) organizzato l’indecente incontro, dove avrei dovuto dire che una famiglia mafiosa ci minacciava…”.
Fin qui i post di Giovinazzo registrati, come tutti gli altri, archiviati e a disposizione della magistratura. È legittimo chiedere all’On.le Ninì Sprizzi di voler chiarire se è stato “attore del depistaggio” e di quale depistaggio è accusato dal prof. Giovinazzo, già presidente della Rinascita “da settembre del 1979 a luglio agosto del 1980”? Di chiarire qual è “l’indecente incontro” di cui parla Giovinazzo?
E se le parole di Giovinazzo, scritte in alcuni post sulla pagina Facebook - mai smentite da Sprizzi che, anzi, ringrazia Giovinazzo per il contributo - risultassero vere e ci furono nel partito tentativi di depistaggio, “impegni assunti” da autorevoli dirigenti nazionali “non mantenuti”, “forniture di ditte palmesi” e “incendio del municipio” e se “sulla morte di Pino a Risarno (Rosarno) si sa tutto, esecutore e mandanti, tutti deceduti, politici amministratori socialisti sui quali non si è mai voluto indagare…”nonè il caso che intervenga la Magistratura?
Non voglio credere che nella piazza virtuale dei social si possa parlare liberamente e impunemente di questioni che intercedono con il corso della giustizia. Depistare le indagini non è un reato?
Vuoi vedere che dove non arrivano gli appelli, le inchieste, i libri, arrivano i social?
Sono convinto che l’On. Ninì Sprizzi chiarirà, in tempi rapidissimi e con onestà intellettuale, le questioni per le quali Giovinazzo lo tira dalla giacca, sono, come ben si comprende, questioni serie che vanno oltre la lana caprina sul grande Pci, i “settantasettini” e gli “indiani metropolitani”.
Di questo parleremo dopo. La verità, la giustizia non si esercita con i like, abbiamo a cuore, ma forse non tutti, che sulla vicenda Valarioti, sul delitto impunito del giovane intellettuale rosarnese, si faccia chiarezza dopo quarant’anni.
È questo il modo migliore per ricordare il drammatico assassinio di Giuseppe Valarioti e di ricollocare la storia del più grande partito comunista occidentale che ha saputo - errori compresi - sollevare a dignità umana un mondo del lavoro sofferente, sfruttato e calpestato nei suoi diritti elementari.
Uno sforzo intellettualmente onesto, da parte di tutti, nel centenario della nascita del Pci.