Giovani e meno giovani si vedono costretti a partire per ridisegnare il loro futuro. E coloro che restano non fanno che subire l’ennesima prova di un destino già scritto. Ma questa terra non può permettersi di continuare così
Tutti gli articoli di Opinioni
PHOTO
La Calabria è una ferita aperta, un solco scavato dall’ostinazione di padri immemori, un teatro di dominio dove i privilegi si impastano con l’arroganza di chi ha eretto la disuguaglianza a sistema. È una terra divorata dai suoi stessi padroni, uomini che, per decenni, hanno inchiodato il destino collettivo a un ordine immutabile, costruendo una gerarchia che non conosce merito, ma solo fedeltà. Le terre più fertili, le risorse, le opportunità non sono altro che trofei blindati dietro le mura di una casta, che si rigenera di padre in figlio, con una perpetuità crudele e silenziosa, come se il destino non fosse che la ripetizione meccanica di uno stesso schema.
Qui, dove ogni parola di uguaglianza si dissolve come sabbia al vento, non c’è posto per la speranza. Ci sono soltanto due facce di una stessa medaglia: da un lato, i beneficiari di un sistema che nega, dall’altro, una massa informe che arranca per sopravvivere, che si aggrappa con le unghie e con i denti ai risparmi di genitori e nonni, illudendosi di costruire un’indipendenza che non è altro che un’eco vuota, una menzogna stanca.
La Calabria, dunque, è un privilegio per pochi, un’arena di esclusione istituzionalizzata, dove giovani e meno giovani si vedono costretti a partire per ridisegnare il loro futuro, a disertare le loro città, i loro borghi vuoti e i loro paesi fantasma. E coloro che restano – gli anziani dai volti scavati, le famiglie che oscillano tra la fame e l’impossibilità – non fanno che subire l’ennesima prova di un destino già scritto: la spoliazione, l’abbandono, l’ingiustizia come condanna perpetua.
Ma questa disparità non è frutto del caso, non è il risultato di un’ineluttabile destino. È invece il prodotto di una deliberata architettura del potere, una macchina cinica costruita per conservare e riprodurre se stessa.
I padri, con la loro feroce mediocrazia, hanno generato e allevato i loro rampolli, esponenti di un'idiocrazia drogata incapace di fare altro che perpetuare o sperperare la loro eredità.
Sono perennemente incompresi, fragili e pavidi, questi figli: inadatti al sacrificio, finti e poco credibili intellettuali straparlanti, esperti di musica e dj per vocazione, professionisti ma non di professione ma per necessaria continuità, non contestano ma si lagnano, non rompono il cerchio, ma si adattano. Vivono nel benessere superficiale che gli è stato concesso, incapaci di modificare una struttura che li soffoca ma li protegge, che li opprime ma che nello stesso tempo li nutre.
E così, la Calabria resta un meccanismo inceppato e incancrenito, un presente insostenibile ancorato a un passato che si ripete, una terra che non genera futuro. Le sue economie sono paralizzate, i suoi servizi quasi inesistenti, la sua società è immobile, incapace di immaginare un’alternativa, di concepire un mondo che non sia il riflesso distorto di ciò che è sempre stato.
Ma la Calabria non può permettersi di continuare così. Non può restare una terra per pochi privilegiati, mentre il resto della popolazione è condannato a una vita di migrazione, di stenti o di salti mortali fatti di ossequiose riverenze. È necessario spezzare questa logica di dominio, questa idolatria di certi cognomi e di certe famiglie, un qualcosa che nasce nel passato e che si perpetua nel presente. Per farlo, bisogna prima smascherare la grande menzogna: quella di una stabilità che è in realtà stagnazione, di una cultura basata sulla conservazione elitaria, di un sistema che non è altro che un gigantesco meccanismo di esclusione.
Cambiare lo stato delle cose non è certamente cosa facile. Richiede il coraggio di affrontare non solo il potere costituito, ma anche profonde paure e abitudini, chiusure, collusioni e complicità. Eppure, è l’unica strada percorribile per evitare di scomparire. Perché una terra che non offre futuro a chi la abita è una terra morta, e la Calabria, nonostante tutto, ha ancora dentro di sé nelle sue viscere più profonde una forza vitale. Ma per farlo, deve finalmente liberarsi da quei padri e da quelle logiche che l’hanno resa un privilegio per pochi, un orizzonte per chi è lontano, un inferno per altri e un purgatorio per i più capaci e fortunati senza santi in paradiso.
E se così non fosse cara Calabria ascolta Pier Paolo Pasolini, "Sprofonda in questo tuo bel mare e libera il mondo".