La Consulta ha disinnescato la legge Calderoli smontando tre punti chiave della normativa. E in attesa della pubblicazione della sentenza ha lasciato già intendere che non possono esserci materie “no-Lep” perché ogni cosa riguarda i diritti
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L’ufficio Comunicazione e Stampa della Corte costituzionale lo scorso 14 novembre ha reso noto che la legge numero 86 del 2024, in materia di regionalismo differenziato, è stata interessata da una pronuncia della Corte costituzionale di cui il comunicato ha anticipato le conclusioni che, a parer nostro, sono tali da svuotarla di quasi tutti i suoi contenuti normativi.
Lo si ribadisce, ciò di cui si parla è un comunicato sul contenuto di quella che sarà la sentenza, la cui pubblicazione è presumibile che si avrà i primi giorni di dicembre.
Il comunicato, però, al giurista qualcosa pur sempre dice, ovverosia che la legge, così come pensata e scritta dal suo ideatore (on. Calderoli), non sta più in piedi, perché in violazione diretta della Costituzione.
A questa conclusione, la Corte è giunta attraverso due parti motive: in primo luogo, con la dichiarazione d’incostituzionalità di ben sette disposizioni presenti nella legge (che quindi saranno da questa espunte), alle quali avrebbero potuto aggiungersene almeno altre cinque, se la stessa Corte non avesse deciso, in una seconda parte, di salvarle, vincolandone, però, il contenuto a uno costituzionalmente orientato.
La legge esiste come numero (la n. 86 del 2004) pur perdendo i suoi principi ispiratori.
La parte che riguarda l’incostituzionalità tocca diversi profili della legge che possono essere riassunti in tre aspetti: limiti alla possibilità di devolvere intere materie legislative, e relative funzioni amministrative; ridefinizione del rapporto Parlamento-Governo (e al suo interno dequotazione del ruolo del Presidente del Consiglio dei ministri); obbligatorietà dei vincoli di solidarietà e unità della Repubblica.
Con riguardo al primo tema, l’Ufficio stampa ci fa intendere che il trasferimento di materie non può essere ampio e generico; una regione non può richiedere che siano trasferite alla sua sola competenza intere materie (dalla salute all’istruzione, passando per il coordinamento della finanza pubblica) perché l’art. 116, c. 3, della Costituzione deve riguardare specifiche funzioni legislative e amministrative di una materia (per esempio l’intera “sanità”), e la richiesta deve essere sorretta da una giustificazione per cui l’esercizio delle funzioni sia efficace ed efficiente (rispetto della sussidiarietà verticale) al fine di garantire l’effettivo miglioramento dei servizi. Non si possono, quindi, richiedere e ricevere in trasferimento ventitré materie legislative e tutte le funzioni amministrative a esse collegate; se fosse passata tale interpretazione saremmo stati dinanzi ad una decostituzionalizzazione della Costituzione tramite una legge ordinaria, con conseguente sviluppo di un regionalismo competitivo, non funzionalizzato al bene comune della società e alla tutela dei diritti costituzionali. Le regioni cioè non possono limitarsi a dire “voglio tutto” ma devono dimostrare di essere capaci di assicurare maggiore efficienza dello Stato in relazione alle funzioni trasferite.
Con riguardo al secondo tema, si dichiara incostituzionale la legge nella parte in cui contiene una “delega in bianco” con cui si attribuisce al Governo il potere assoluto di stabilire i LEP, senza vincolo alcuno. Ma i LEP non solo non possono essere determinati con decreti legislativi privi di una precisa e puntuale delega, ma anche il loro aggiornamento non può avvenire con decreto del presidente del Consiglio dei ministri (il famigerato dPCm) che non è controllato né dal Parlamento né dal Presidente della Repubblica. La Corte, in tal modo, intende restituire dignità e funzioni al Parlamento.
Con riguardo al terzo tema, la Corte dichiara illegittima la disposizione mediante la quale si permetteva alle regioni ‒ che avessero ottenuto le risorse dallo Stato per finanziare le funzioni trasferite ‒ di richiedere un ulteriore finanziamento (mediante un innalzamento delle aliquote di compartecipazione al gettito dei tributi erariali) senza ricorrere alla legge (e quindi al Parlamento) ma attraverso un mero decreto interministeriale (quindi del Governo), con il rischio, quindi, di premiare proprio le regioni inefficienti.
Passando alla parte c.d. interpretativa della “sentenza che sarà” (interpretate diversamente, anche le disposizioni oggi “salvate” sarebbero da ritenersi incostituzionali), la Corte continua su questo filone e assicura che la legge di differenziazione non rientra nella esclusiva competenza degli esecutivi (nazionale e regionali) ‒ non potendosi limitare l’intervento del Parlamento a una mera approvazione dell’intesa stipulata fra il Governo e la regione ‒ ma implica il potere di emendamento delle Camere che potranno incidere sull’intesa tanto che la stessa potrà essere eventualmente rinegoziata.
La Corte ci dirà anche che la differenza tra “materie LEP” e “materie no-LEP” è stato un vero e proprio gioco delle tre carte. Questa differenza ‒ che serviva a garantire un’accelerazione alle intese su alcune materie che nelle intenzioni non avrebbero richiesto la definizione e il finanziamento dei LEP ‒ è di fatto svuotata. Non lo si legge nel comunicato, ma è davvero facile argomentare che basta avere a mente gli articoli 117, c. 2, lett. m) e 120 della Costituzione per rendersi conto che la parte della Carta che fa riferimento ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (i LEP, appunto) non si riferisce alle materie quanto piuttosto ai diritti. E allora sono i diritti che reclamano la fissazione dei LEP. Quindi, dove ci sono diritti là devono esserci i LEP. La tesi che strutturava la l. n. 86 – risibile – è che ci sarebbero delle intere materie prive di incidenza sui diritti (“materie no-LEP”). Ma questa tesi è davvero troppo esagerata per provare anche solo a prenderla in considerazione.
Sempre sui LEP, la Corte ci dirà che l’individuazione delle risorse destinate alle funzioni trasferite dovrà avvenire non sulla base della spesa storica, bensì prendendo a riferimento costi e fabbisogni standard e criteri di efficienza, e che la clausola di invarianza finanziaria richiede che si tenga conto del quadro generale della finanza pubblica, degli andamenti del ciclo economico, del rispetto degli obblighi eurounitari; il che vuol dire che al momento della stipula delle intese si dovrà garantire l’individuazione delle risorse.
Come visto, quindi, la legge è demolita, tanto che il Legislatore può (deve) intervenire per colmare i vuoti derivanti dalle dichiarazioni di incostituzionalità, e dovrà farlo, questa volta, nel rispetto dei principi costituzionali, in modo da «assicurare la piena funzionalità della legge». Questo passaggio presente nel comunicato ci fa intendere che la legge è di fatto e di diritto inapplicabile.
Domandiamoci a questo punto cosa rimane delle richieste referendarie alla luce delle modifiche legislative, se queste arriveranno, o comunque di quella che sarà la sentenza.
La decisione spetta alla Corte di Cassazione (al suo Ufficio centrale per il referendum, UCR) che a norma dell’art. 39 della l. n. 352 del 1975 (riletto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 16/1978) è competente a dichiarare la procedibilità della richiesta referendaria qualora la legge o le singole disposizioni cui il referendum si riferisce siano state abrogate. L’intervento dell’UCR si ha anche (ed è in parte ciò che può accadere a seguito dell’intervento del Legislatore) quando l’abrogazione degli atti o delle singole disposizioni cui si riferisce il referendum venga accompagnata da altra disciplina della stessa materia che non modifichi però né i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti; in questi casi l’UCR ha il compito di far sì che il referendum si effettui sulle nuove disposizioni legislative.
Quindi, per bloccare l’iter referendario le nuove modifiche legislative dovranno essere conformi alla sentenza della Corte; in caso contrario il referendum sulle parti non espunte si dovrà svolgere.
Ma cosa accadrebbe se il Parlamento non intervenisse? Pur essendo assai probabile che l’UCR giudichi che i principi ispiratori della legge sono completamente cambiati con “la sentenza che verrà”, il rischio che potrebbe presentarsi è che, una volta disinnescato il referendum, la parte proposta dalla Corte come interpretazione costituzionalmente orientata non venga fatta propria dal Governo, dal Parlamento e dalle Regioni. Restando in piedi questa ipotesi, quella cioè che non ci si attenga alla interpretazione offerta dalla Corte, è auspicabile che il referendum sottoscritto da un milione e trecento mila cittadini continui il suo iter.
La decisione sarà comunque affidata all’UCR una volta pubblicata la sentenza e inteso il corretto verso della sua pronuncia, da noi solo ipotizzato; se il quesito dovesse essere riscritto toccherà alla Corte costituzionale esprimersi col giudizio di ammissibilità dello stesso (sulle ragioni dell’ammissibilità ci siamo già soffermati su questo stesso giornale: QUI).
Il quesito, comunque, potrà essere soggetto sempre a modifica qualora gli interventi auspicati dalla Corte dovessero intervenire nel periodo successivo all’ammissibilità e precedente allo svolgimento del referendum (in una domenica compresa tra il 15 aprile ed il 15 giugno).
Ma attendiamo la pubblicazione della sentenza, prima, la decisione dell’UCR, poi e, nel caso, il giudizio di ammissibilità della Corte costituzionale, il prossimo 15 gennaio.
Chissà se per quella data il Parlamento in seduta comune avrà eletto i quattro giudici che nel frattempo avranno terminato il mandato. Ma a prescindere dalla nuova composizione della Corte, ciò che rimarrà è che o l’autonomia si esercita nel rispetto della Costituzione e quindi in un contesto di regionalismo solidale, o non è tale: il regionalismo competitivo è bandito dal nostro assetto costituzionale e solo la Corte poteva sentenziarlo, e non poteva anticiparlo meglio di così!
Della sentenza (o, se non pubblicata ancora, del comunicato) e dei suoi risvolti, si discuterà in Università della Calabria (Aula Caldora) nel convegno Verso una nuova forma di Stato? Premierato elettivo, magistratura e autonomia differenziata. Giornata di studio in onore di Fernando Puzzo, che si terrà il prossimo 29 novembre.