Chiudere è facile, riaprire in sicurezza, invece, è esercizio di governo complesso e anche più complicato. Ma è quello di cui hanno bisogno i cittadini calabresi
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Da tempo sostengo, e non da solo, che sia errato parlare di fase-uno e fase-due dell’emergenza epidemiologica a causa delle false suggestioni che tale distinzione può generare. Affermo, viceversa, che sia necessario integrare in un visione organica - adeguata, sostenibile e coerente - le esigenze di sicurezza sanitaria, di ripresa dell’attività economica e di rinnovata socialità. E ciò per almeno due ragioni di fondo.
La prima: il Covid-19 ha caratteristiche che lo rendono estremamente subdolo e infido; tali caratteristiche non sono ancora allo stato esaustivamente comprese sul piano scientifico né vi è un consenso diffuso su alcune specifiche modalità di azione. E’ un virus silenzioso. Potrebbe ritornare. Potrebbe non lasciare traccia della sua azione in un organismo. Pensare quindi che ci possa essere un netto spartiacque tra presenza e assenza del virus o che si possa stabilire una data che segna con certezza il salto tra un prima pericoloso e un dopo sicuro, è, allo stato delle conoscenza scientifiche, quantomeno improprio.
La seconda: il Covid-19 ha messo in crisi alcuni tratti costitutivi e direi quasi inerziali della nostra relazionalità interpersonale. Lo chiamano distanziamento sociale, ma si tratta in verità di un distanziamento fisico, in cui la stessa corporeità dell’altro, il solo fatto di incontrare un’altra persona possono diventare un pericolo per me stesso. Si tratta di un aspetto emotivo, ma dal forte impatto socio-economico: si pensi, tanto per fare un esempio, ai settori di attività ad alto tasso di socializzazione (dalla ristorazione alle imprese culturali).
Bastano questi pochi elementi per comprendere che forse dovremmo iniziare a ragionare, fin d’ora, su una nuova idea di normalità. E provare a costruire anche gli snodi organizzativi di una nuova socialità che sia, appunto, adeguata, sostenibile e coerente con le mutate condizioni o, meglio, con la consapevolezza che le condizioni siano profondamente mutate. Intendo un nuovo modo di lavorare, di produrre, di stare insieme. E di ridefinire i nostri valori fondamentali.
Va da sé che non condivido l’idea di chi invece vede l’emergenza epidemiologica come una brutta parentesi, una interruzione di un processo di sviluppo lineare che, alla fine, riprenderà il suo inarrestabile percorso. Così purtroppo non è e non basterà certo riaprire una azienda perché tutto vada per il verso giusto. Tant’è che gli economisti indipendenti dell’Ufficio parlamentare del bilancio nella nota congiunturale sulla situazione economica e finanziaria di questo mese di aprile hanno ritenuto di dover precisare in via cautelativa che le loro “previsioni sono soggette ad una incertezza senza precedenti”.
Senza precedenti. E quindi senza pietre di paragone adeguate. Proprio per questo, però, sarebbe sbagliato voltarsi indietro cercando di trovare nel passato le risposte per il futuro. Semmai occorre guardare bene quello che è successo per evitare di ripetere gli errori che ora stiamo pagando a caro prezzo, anche nella nostra Regione, anche se i numeri non sono comparabili a quelle delle altre regioni. Cercherò di concretizzare il mio discorso condividendo due punti di riflessioni sulla sanità.
Punto primo. L’esperienza delle regioni maggiormente colpite dimostra, in modo evidente, ciò che l’ora novantunenne Piero Bassetti, primo presidente della Lombardia e indiscusso protagonista del regionalismo democratico italiano, ha qualche giorno fa sintetizzato in poche parole: è stato un “errore privilegiare la cura rispetto alla salute”. Il che significa, in altre parole, che è necessario ridare centralità alla sanità territoriale rafforzandone, in intensità ed estensione, la funzione. Peraltro solo una sanità territoriale adeguata consente di riportare la questione ospedaliera alla sua giusta dimensione, assicurando l’appropriatezza degli interventi, la specializzazione funzionale e la qualità operativa, certo non autocertificata come oggi spesso capita, ma comprovata da esperti indipendenti su dati oggettivi.
Salvatore Venuta, indimenticato oncologo e primo rettore dell’Università di Catanzaro, era solito dire che il futuro dei sistemi sanitari è annidato nella diagnostica e nei dipartimenti di emergenza/urgenza, da affiancare a centri specialistici di eccellenza. E il tempo gli sta dando ragione. Peraltro il modello territorio-ospedale (anzi, al plurale, territori-ospedali perché diverse sono le situazioni) va ripensato tenendo conto anche delle nuove sfide che la pandemia ha posto davanti a tutti noi, con l’esigenza urgente di creare una rete di intervento anche per le malattie infettive con centri ad hoc e laboratori specializzati. In effetti, fa riflettere il recente aumento della mortalità per malattie cardiache, quasi che la paura del contagio sia oggi più forte della paura della malattia tanto da allontanare i pazienti anche gravi dalle cure ospedaliere.
Peraltro, oltre a ribadire l’esigenza della specializzazione funzionale, lo stesso Salvatore Venuta era solito anche ricordare l’importanza di una forte correlazione ed anzi di una trasparente sinergia, di un affiancamento operativo del sistema universitario di ricerca ed assistenza con la rete ospedaliera regionale. E per questo aveva anche voluto un campus universitario privo di barriere e recinzioni, proprio per significare architettonicamente l’apertura dell’Università, in tutte le sue facoltà, al territorio. Tema difficile, questo, perché il discorso si intreccia con interessi, passioni ed ambizioni umane. E tutti ricordiamo, condividendole o meno poco importa, le sue battaglie per preservare l’autonomia dell’istituzione universitaria dalle invasioni della politica (anzi, dei politici). Ma il tema è comunque ancora oggi essenziale nell’interesse dei cittadini. Anzi, proprio la pandemia sta dimostrando quanto la ricerca scientifica sia vitale, e come possa anche diventare un attivatore di economia. Era questo il disegno del campus di Germaneto: dai banchi di ricerca al letto del paziente, passando per un sistema organizzato di spin-off orientato al mercato e ad un rapporto di collaborazione ed affiancamento con gli ospedali sul territorio. E’ una visione. La si può condividere o meno, ma almeno è una idea, una linea di marcia, una visione, appunto. Ma le visioni, si sa, camminano sulle gambe degli uomini e delle donne che le incarnano.
E in questo scenario devo però qui ricordare, sommessamente, ma a futura memoria, che qualche giorno primo del lockdown emergenziale ero impegnato, con i sindaci del territorio, a contrastare in Cittadella regionale la proposta di riduzione, di oltre la metà (da sessanta a venticinque), delle postazioni di continuità assistenziale nel territorio della provincia di Catanzaro. E si aggiunga pure un corollario non secondario: la sanità territoriale è per definizione pubblica, dal momento che la competizione del pubblico con il privato, convenzionato o solo accreditato, opera soltanto e per evidenti motivi a livello specialistico ed ospedaliero. Insomma, l’esperienza del Covid-19 nelle regioni più colpite ha dimostrato non solo che abbiamo bisogno di un sistema sanitario pubblico, ma anche ed in modo ancora più evidente che quello sanitario è un sistema (complesso) di sistemi (specializzati). E come tutti i sistemi non può essere affidato alla mutevole improvvisazione quotidiana o affidato ad invenzione estemporanee prive di qualunque ponderata fattibilità ma richiede una strategia e dunque algoritmi operativi chiari, condivisi e funzionali. Non uno solo al comando, ma una regia che sappia costruire un gioco di squadra. Nell’interesse del paziente, non di altro.
Punto secondo. Un gioco di squadra presuppone ruoli specifici cui seguono, necessariamente, specifiche responsabilità. Confesso di essere rimasto molto colpito da un recente decreto del Tar di Catanzaro a proposito dell’obbligo di quarantena. E’ una vicenda un poco paradossale, perché il Presidente del Tribunale ha respinto la richiesta cautelare dell’interessato, multato e ammonito di restare a casa, e che lamentava per questo di essere stato ristretto in quarantena, e l’ha respinto perché mancava l’atto formale e finale di prescrizione della quarantena obbligatoria che può essere disposto solo dal sindaco su richiesta del dipartimento di prevenzione dell’azienda sanitaria. In modo formale, dunque, e dalla autorità competente, giacché alla relativa violazione conseguono pesanti effetti sanzionatori, oltre la stessa compressione della sfera di libertà personale. Ricordo questo caso solo per segnalare come la complessità del sistema sanitario di cui parlavo prima si traduce alla fine in una molteplicità dei soggetti coinvolti e questa circostanza, se non ben tracciata e governata, rischia di risolversi in un rimpallo dall’uno all’altro e comunque rischia di creare problemi a tutti, come sanno coloro, e in genere sono tanti, che ricevono, qualunque sia stato il loro ruolo, un avviso di garanzia per consentire l’avvio delle indagini su di un caso di malasanità.
E che sia così è apparso evidente nelle situazioni ormai ben note di Torano e Chiaravalle. I due casi presentano alcune significative dissonanze sul piano della gestione della crisi, in particolare per quanto riguarda l'atteggiamento della proprietà e il livello di collaborazione con la Regione. E tuttavia, in entrambe le situazioni gli attori coinvolti, che sono stati, e continuano ad essere, tanti, hanno vissuto una incredibile incertezza operativa laddove invece proprio le situazioni di emergenza dovrebbero essere caratterizzate da una chiara attribuzioni di compiti, cui seguono ovviamente delle responsabilità. E pensare di scaricare sulle spalle dei sindaci le fragilità di una filiera istituzionale e del sistema sanitario è francamente inaccettabile: è sufficiente parlare con i sindaci per rendersi conto di una serie di questioni, delle quali la difficoltà di comunicazione è solo l’epifenomeno. Certo, è più facile ordinare la chiusura dei confini che non essere presenti ed organizzare un protocollo operativo per gestire le crisi nei territori. Ma proprio questa circostanza dimostra quale e quanto sia il bisogno di organizzazione e non di approssimazione, di procedure e non di volontarismo, di programmazione su dati oggettivi e non di estemporaneità creativa, nel sistema sanitario regionale. Per non parlare poi della necessità di fare chiarezza nei rapporti tra l'amministrazione regionale e i soggetti privati operanti nel settore sociale, assistenziale e sanitario. Ma questa è questione che merita una riflessione a parte perché il problema, com’è chiaro, non è tanto l’iniziativa privata quanto piuttosto il controllo (o il mancato controllo) pubblico.
Insomma, e mi avvio a concludere, l’esperienza Covid-19 sta segnando la nostra quotidianità e enfatizzando la nostra fragilità umana: pensavamo di essere i dominatori dell’universo e invece ci ritroviamo senza sapere bene che fare. Ma sta evidenziando anche la fragilità di alcuni snodi della nostra vita sociale e i costi alti che da essa derivano. Possiamo guardare quello che succede e abbandonarci alla usuale tentazione di trovare colpe e colpevoli (che certo ci sono, ma in genere sono sempre gli altri) e dell’indignazione sui social. Oppure possiamo sperare che tutto finisca presto per riprendere il percorso passato. Io credo che sia invece necessario guardare ora e bene per stabilire come intervenire, modulare e governare la nostra risposta all’emergenza. Perché di questo abbiamo bisogno: di governare i processi, di organizzare le strutture, di ordinare le filiere istituzionali.
E forse vale la pena chiudere ricordando le parole note di Salvador de Madariaga: “asfaltar no es gubernar”. Chiudere è facile, riaprire in sicurezza, invece, è esercizio di governo complesso e anche più complicato. Ma è quello di cui hanno bisogno i cittadini calabresi.