Il caso di Fahim, simbolo di uno spreco di risorse e di una gestione confusa: l’accordo con l’Albania si rivela più un’operazione di propaganda che una soluzione efficace al problema migratorio
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Era stato presentato come una svolta epocale nella gestione dell'immigrazione. Un progetto coraggioso, innovativo, capace di risolvere uno dei nodi più intricati della politica italiana. Invece, a pochi mesi dalla sua entrata in vigore, l'accordo tra Italia e Albania sui migranti rischia di trasformarsi in un monumento allo spreco e all'inefficienza.
Il caso di Fahim, 49 anni, cittadino bengalese con qualche precedente penale, venditore di rose nei ristoranti di Roma, riassume perfettamente il paradosso. Fermato durante un controllo, Fahim era risultato privo di permesso di soggiorno. Nulla di particolarmente complesso: un migrante irregolare come tanti, che avrebbe potuto essere rimpatriato in tempi rapidi, con un normale volo da Roma verso il Bangladesh.
E invece, per una serie di motivi più politici che pratici, si è deciso di utilizzarlo come "apripista" per il tanto pubblicizzato Cpr di Gjader, in Albania. Con risultati a dir poco disastrosi.
Per raggiungere l'Albania, Fahim è stato prima trasferito da Roma a Brindisi. Da lì, imbarcato su una nave diretta a Schengjin. Dopo una settimana di detenzione nel centro di Gjader, è stato ricondotto in Italia per poi essere finalmente imbarcato su un volo per il Bangladesh. Quattro viaggi internazionali in sette giorni, con la necessaria scorta di agenti per ogni spostamento, come da protocollo.
Il costo? Almeno 6.000 euro, probabilmente anche di più, a fronte di una spesa media di circa 2.800 euro per un rimpatrio diretto. Una cifra enorme, considerando che Fahim, lungi dal voler rimanere in Italia, aveva espresso lui stesso la volontà di tornare a casa.
Ma la vicenda di Fahim non è un caso isolato. Altri tre migranti, trasferiti di recente nel centro di Gjader, sono stati riportati in Italia: due per gravi condizioni psichiche, uno perché ha chiesto protezione internazionale. La Corte d'appello di Roma ha stabilito infatti che chi fa domanda d'asilo non può essere trattenuto in un Paese terzo, ribadendo un principio di diritto che il governo sembrava intenzionato a ignorare.
Alla luce di questi fatti, l'accordo con l'Albania rischia di rivelarsi un boomerang. Da una parte, i costi aumentano a dismisura. Dall'altra, la gestione operativa si rivela caotica e inefficace. Senza contare il crescente contenzioso legale che potrebbe ulteriormente complicare l'applicazione del protocollo.
Le immagini dei mezzi che vanno e vengono da e per l'Albania, i numeri ridicoli dei rimpatri effettivamente avvenuti, le sentenze che riportano i migranti in Italia, raccontano una realtà molto diversa da quella dipinta dalla narrazione ufficiale.
Non siamo di fronte a un piano strategico capace di governare i flussi migratori. Siamo di fronte a un'operazione di pura propaganda, pensata per dare risposte facili a un tema complesso, sacrificando sulla strada milioni di euro dei contribuenti.
L'ossessione albanese di Giorgia Meloni, a oggi, sembra aver prodotto solo sprechi, confusione e imbarazzo. E mentre Fahim è finalmente tornato a Dacca, il governo resta prigioniero di una narrazione che non regge più alla prova dei fatti.
In un'Italia che affronta emergenze quotidiane – dalla sanità al lavoro, dalla scuola alla sicurezza sociale – il lusso di buttare via risorse pubbliche in operazioni mediatiche fallimentari non dovrebbe essere più tollerato.
E, alla fine, il progetto Albania non verrà certo ricordato come una grande vittoria politica, ma come uno degli errori più costosi e clamorosi di questa legislatura.