«Segna un pericoloso precedente». Così Elena Cecchettin ha commentato le motivazioni della sentenza che ha condannato all’ergastolo Filippo Turetta per l’omicidio della sorella Giulia. E la frase è diventata virale. Ma per comprendere davvero perché quel verdetto stia facendo così discutere, occorre andare oltre le reazioni e leggere ciò che la Corte d’Assise di Venezia ha scritto in 143 pagine dense, depositate il 2 aprile.

Sì, l’ergastolo è stato inflitto. Sì, è stata riconosciuta la premeditazione. Ma il punto critico, e lo snodo su cui si concentrano le polemiche, sta nell’esclusione di due aggravanti: la crudeltà e lo stalking. Due esclusioni che pesano, soprattutto alla luce dei dettagli agghiaccianti di questo femminicidio.

Partiamo dalla crudeltà. L'omicidio di Giulia Cecchettin, avvenuto l’11 novembre 2023, è stato compiuto con almeno 75 coltellate. Di queste, secondo il medico legale, solo due o tre sono state effettivamente mortali. Il resto, decine di ferite, è stato inferto su una giovane donna che cercava di fuggire, che chiedeva “ma cosa stai facendo?”, che lottava per sopravvivere.

Tuttavia, secondo i giudici, quel numero spropositato di colpi non configura “crudeltà” nel senso giuridico del termine. Perché? La motivazione è questa: Filippo Turetta non avrebbe voluto infliggere sofferenza gratuita, ma semplicemente non era “abile” nell’uccidere. Le coltellate sarebbero quindi «la conseguenza della sua inesperienza», non l’effetto di un intento sadico.

Scrivono i giudici: «Non vi è certezza che egli volesse infliggere alla vittima sofferenze gratuite e aggiuntive. Non è a tal fine valorizzabile, di per sé, il numero delle coltellate». Anzi, quel numero elevato viene letto come espressione di goffaggine, non di ferocia. In pratica, l’imputato ha colpito così tante volte non per crudeltà, ma perché non sapeva “uccidere bene”. Una logica che molti — giuristi inclusi — ritengono rischiosa: trasforma la brutalità in imperizia, e l’efferatezza in goffaggine omicida.

Il secondo punto controverso riguarda lo stalking. Secondo la Corte, è indubbio che Turetta avesse assunto comportamenti persecutori, «molesti, prepotenti e vessatori». Ma — e qui sta il passaggio chiave — Giulia non aveva paura di lui. Lo dice il padre Gino, lo confermano alcune amiche: lo considerava un “rompiscatole”, non un pericolo. Per questo, pur riconoscendo l’oggettiva invasività delle azioni di Turetta nei suoi confronti, la Corte esclude che si possa parlare, tecnicamente, di stalking.

Anche in questo caso, non manca chi contesta l’impianto logico: una persecuzione non dovrebbe dipendere dalla percezione soggettiva della vittima, ma dal comportamento di chi compie il reato. La paura può mancare, ma il controllo, le pressioni, le vessazioni restano. E in molti, nel mondo accademico e giuridico, ritengono che quella formula rischi di normalizzare una forma di violenza sommersa, quella che precede il gesto estremo, e che troppo spesso viene sottovalutata.

Nel resto della sentenza, la ricostruzione è puntuale e durissima. Viene riconosciuta la premeditazione, grazie alla scoperta della lista sul telefono di Turetta, redatta quattro giorni prima del delitto. In quella nota: “pieno di benzina”, “coltelli”, “badile”, “sacchi della spazzatura”, “vestiti di ricambio”. Azioni segnate e spuntate. Nessuna esitazione. Nessuna emergenza emotiva. Solo un’esecuzione fredda.

La Corte rigetta anche le attenuanti generiche. Ricorda che Turetta ha mentito al primo interrogatorio, che ha collaborato solo per convenienza, che non ha mai mostrato alcun gesto riparativo verso la famiglia della vittima. E sottolinea che la fuga in Germania è durata una settimana, interrotta solo quando l’assassino ha terminato i soldi, non certo per pentimento.

Dunque sì, la condanna è la massima prevista. Ma è l’argomentazione che la sostiene a creare fratture. Perché, come scrive Elena Cecchettin, la giustizia non serve solo a chiarire il passato, ma a prevenire il futuro. E una sentenza che esclude la crudeltà in presenza di 75 coltellate rischia — al di là delle intenzioni dei giudici — di mandare un messaggio ambiguo.

Un messaggio che, secondo molti, potrebbe autorizzare nuovi orrori. O, peggio ancora, anestetizzarli.