Sarebbero stati "trattamenti inumani e degradanti" quelli nei confronti del boss ammalato. La detenzione in sé non è stata invece considerata lesiva dei diritti del capomafia stragista
Tutti gli articoli di Italia Mondo
PHOTO
L'Italia ha violato il diritto di Bernardo Provenzano a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Lo sostiene la Corte europea dei diritti umani che ha condannato il Paese perché il ministero della Giustizia ha continuato ad applicare il carcere duro al boss dal 23 marzo 2016 alla sua morte avvenuta il 13 luglio 2016, mentre era detenuto in regime di 41 bis all'ospedale San Paolo di Milano. Gli accertamenti medici avevano documentato il decadimento cognitivo e il progressivo peggioramento del quadro neurologico e fisico del padrino corleonese. Condizioni che rendevano lo stato di Provenzano incompatibile con il regime carcerario e che richiedevano una assistenza adeguata e continuativa che poteva essere garantita solo in una struttura sanitaria di lungodegenza.
Carcere sì, insomma, ma non doveva essere carcere duro. La sentenza ha ritenuto quindi inammissibile l'applicazione del cosiddetto 41 bis all'anziano boss corleonese, deceduto all’età di 83 anni nell'ospedale San Paolo di Milano. Nonostante la malattia che gli aveva fatto del tutto perdere conoscenza, il boss rimase detenuto nel regime previsto dall'articolo 41 bis dell'ordinamento penitenziario, che per mafiosi e terroristi dispone un sistema carcerario con - tra le altre cose - l'isolamento e nessun contatto fisico con i prossimi congiunti.
"Trattamenti inumani e degradanti", li ha definiti la Cedu con riferimento al boss ammalato, mentre la detenzione in sé non è stata considerata in alcun modo lesiva dei diritti del capomafia stragista. Furono numerose le polemiche sollevate dal difensore di Provenzano, l'avvocato Rosalba Di Gregorio, che, basandosi sui referti medici e sulle perizie degli esperti nominati dai magistrati, aveva sollecitato quanto meno la revoca del 41 bis, ma senza successo: tutti i tribunali di sorveglianza e le corti chiamate a decidere non modificarono mai la situazione.
Il paziente aveva, secondo i periti, un grave stato di decadimento cognitivo, non riusciva a esprimersi in maniera comprensibile e il suo quadro neurologico risultava sempre in progressivo peggioramento. Nonostante Provenzano risultasse, per i medici, "incompatibile con il regime carcerario" e venisse chiesto il suo ricovero in una struttura sanitaria attrezzata per la lungodegenza, la sospensione pena invocata dai legali, la Di Gregorio e il marito Franco Marasà, non fu mai accordata e nemmeno il 41 bis fu mai revocato.