Una Roma finta, gonfiabile, messa in scena nel cuore di Mosca con tanto di Colosseo stilizzato e gladiatori in costume. Francesco Totti si presenta così alla serata dei “Premja Rb”, premi sportivi organizzati dal sito di scommesse russe Booking Ratings, nel pieno di un contesto internazionale che più delicato non si può. Mentre l’Ucraina conta i morti e l’Europa rafforza le sanzioni, l’ex capitano della Roma atterra a Mosca come ambasciatore del calcio. Gioca due palleggi, firma autografi, consegna premi. Ma soprattutto, tace.

La scena, se non fosse reale, sembrerebbe uscita da una fiction. Campo sintetico, gladiatori acrobatici, gag da cabaret tra una premiazione e l’altra. Totti viene accolto come “l’Imperatore che torna nella Terza Roma”, lo slogan scelto dagli organizzatori. La scenografia gioca su un’iconografia tutta italiana, ridotta a scenetta folcloristica per intrattenere ospiti e media russi. Ma l’ex bandiera giallorossa ci sta. Sorridente. Cordiale. Nessun imbarazzo apparente.

Il problema, però, è che intorno a quella serata c’è un mondo intero che brucia. C’è una guerra in corso, un’invasione, un’Unione Europea che ha scelto con nettezza da che parte stare. Ci sono artisti e sportivi che, in questi due anni, hanno rinunciato a presenziare a eventi in Russia per coerenza, per rispetto, per pudore. Totti no. Totti va. Totti partecipa. Totti si siede a cena — menù gourmet, medaglioni di manzo e dessert al miele — e poi sale sul palco per consegnare il premio più importante: miglior allibratore dell’anno. Nessuna dichiarazione politica, nessuna domanda scomoda, nessuna parola fuori copione. Solo sport, direbbe lui.

E infatti, quando gli viene chiesto di commentare la sua presenza, la risposta è disarmante per quanto prevedibile: «Sono qui perché mi hanno invitato. È una serata dedicata allo sport». Come se bastasse a giustificare tutto. Come se bastasse a spiegare perché un ex ambasciatore dell’Unicef si presti a un evento propagandistico — perché di questo si tratta — in un Paese che la comunità internazionale ha isolato proprio per le sue responsabilità nella crisi ucraina.

Totti, dal canto suo, sembra non vedere né sentire. Parla con la stampa russa solo di calcio, racconta della sua agenzia, ricorda l’ultima partita giocata con la Roma, commenta la crescita del figlio Cristian, che oggi milita in Serie D. E quando gli chiedono chi vorrebbe sulla panchina della Roma, sorride: Mourinho o Ancelotti, entrambi andrebbero bene. Nessun riferimento al contesto, alle critiche, alle polemiche. Un perfetto esempio di diplomazia dell’assenza.

A Roma, intanto, le reazioni non si fanno attendere. Andrea Massaroni, coordinatore romano di +Europa, parla di “resa simbolica”. Sui social c’è chi difende la libertà personale di Totti e chi lo accusa, duramente, di ipocrisia: come si concilia il ruolo di simbolo positivo, di testimonial per l’infanzia e per lo sport pulito, con una trasferta che sa tanto di passerella ben pagata in un Paese che usa lo sport come vetrina internazionale per distrarre e manipolare?

E infatti la vera questione non è solo “perché è andato”. Ma perché non ha detto nulla. Nessun atleta ha l’obbligo di fare politica. Ma quando accetti di essere un volto pubblico, e soprattutto quando il contesto è così carico di implicazioni, il silenzio diventa una scelta. E il silenzio, stavolta, fa molto più rumore delle parole.

Totti non è nuovo a uscite leggere, dichiarazioni ingenue, atteggiamenti disinvolti. È sempre stato più istinto che strategia. Ma qui non si tratta di una gaffe. Si tratta di un messaggio. Volente o nolente, Francesco Totti ha prestato la sua immagine a un’operazione che usa l’estetica italiana per normalizzare l’anomalia russa. E che lo ha fatto con successo, proprio grazie al suo silenzio.

Il sipario cala. I riflettori si spengono. I gladiatori tornano nei camerini. L’Imperatore si accomoda per l’ultima portata. La guerra resta fuori scena. Ma c’è. E anche se Totti fa finta di non vederla, è lei la vera grande assente di questa serata surreale.