L'ex ministro dell'Interno e presidente della Fondazione Medor sottolinea l'importanza di mantenere buoni rapporti con i Paesi arabi moderati per evitare «una nuova Sarajevo»: «Mai il Pianeta è stato così diviso, è necessaria la cooperazione»
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Il rapporto dell'autunno 2023 della Fondazione Medor, presieduta da Marco Minniti, aveva anticipato la strage di Mosca come conseguenza delle tensioni legate alla guerra in Ucraina e all'attività terroristica jihadista. Il documento si intitolava “Il nemico invisibile”.
La Russia era un obiettivo perfetto per l'attacco, sia per motivi logistici che per il suo coinvolgimento in conflitti regionali come la questione cecena e la sua presenza in Siria. Lo spiega Minniti in un’intervista rilasciata per Repubblica a Carlo Bonini. «Islamic State aveva bisogno di un atto eclatante nella sua ferocia per rivendicare la sua identità e riaccendere, insieme alla sua capacità di reclutamento, spinte emulative», dice l’ex ministro dell’Interno.
La scelta della Russia, evidenzia Minniti, deriva innanzitutto da ragioni logistiche: «La sconfitta militare di Islamic State non consentiva di colpire nel cuore dell’Europa facendo ricorso ai cosiddetti “lupi solitari”. Al contrario, consentiva invece di colpire lì dove esiste un retroterra operativo consolidato, a Est. E in un Paese impegnato in guerra come la Russia, dove dunque la sorveglianza interna inevitabilmente si allenta». Questo uno dei motivi. L’altro è in quello che la Russia rappresenta per lo jihadismo: «La vicenda cecena è una ferita ancora drammaticamente aperta e il ruolo da macellaio di Kadirov in Ucraina ha tenuto viva la fiamma della vendetta. Per non parlare del ruolo militare avuto dalla Russia di Putin in Siria»
L'attentato, afferma il presidente di Medor, rappresenta un contraccolpo per Putin e la sua politica di rilancio nazionale: «La strage del Crocus City Hall rappresenta, drammaticamente, un contrappunto della Storia perché vede l’uomo che ha scommesso sulla destabilizzazione degli equilibri geopolitici del mondo rimanerne vittima».
Le reazioni del Cremlino, evidenzia Marco Minniti, indicano un tentativo di consolidare il sostegno popolare attraverso la narrativa anti-terrorismo: «A una Russia che usciva dalla dissoluzione dell’Unione sovietica Putin propose l’epica dell’uomo forte in grado di proteggere il Paese e restituirgli il posto che meritava nel mondo. E funzionò. La strage di venerdì gli offre l’opportunità di fare la stessa cosa. Anche nella prospettiva di un’ulteriore escalation del conflitto con l’Ucraina».
Minniti si sofferma poi sul rischio di risvegliare cellule dormienti in Europa e sottolinea la necessità di evitare divisioni che potrebbero portare a un conflitto mondiale, promuovendo invece la cooperazione internazionale, soprattutto nella lotta al terrorismo. «Credo che il dato di preoccupazione maggiore vada individuato nell’impossibilità di immaginare oggi quello che fu possibile nel 2015. E mi riferisco a una grande coalizione contro il terrorismo islamista». Impossibile perché, risponde l’ex ministro a Bonini, «il mondo non è mai stato così diviso» e «il vecchio ordine mondiale è irrimediabilmente finito».
Infine, Minniti enfatizza l'importanza di mantenere buoni rapporti con i Paesi arabi moderati, fondamentali nella lotta contro il terrorismo, avvertendo sul pericolo di compromettere tali relazioni. «Il mondo non può sicuramente abituarsi all’idea di una “caoslandia” perché questo aumenterebbe vertiginosamente i rischi di un conflitto mondiale. In un mondo privo di ordine, una nuova Sarajevo è possibile». Dunque, vanno mutate «prospettiva e asse di ragionamento».
Attraverso, appunto, la cooperazione. Basata su due capisaldi: lotta al terrorismo e ai cambiamenti climatici. E, rimarca Minniti, coinvolgendo il “global South”: «Mi riferisco a quei Paesi che un tempo chiamavamo “non allineati” e che hanno fatto la fila lo scorso anno alla riunione della Shanghai Cooperation organization e alla riunione dei Brics per contare nel mondo che ci attende».
Ma, avverte Minniti, bisogna «evitare che si compia qualcosa che impedirebbe irrimediabilmente questo processo». Alla richiesta di spiegazione di Bonini, risponde: «Sono un amico di Israele. Da sempre. Ma se l’attuale leadership israeliana decidesse di attaccare Rafah, questo comprometterebbe per lungo tempo il rapporto con i Paesi arabi moderati, senza il cui ruolo decisivo non saremmo mai riusciti a sconfiggere militarmente e politicamente Islamic State. Perdere i Paesi arabi moderati significherebbe aprire una nuova stagione di radicalismo, religioso e di valori, scatenando così una tempesta perfetta. Che solleciterebbe le masse dei Paesi arabi moderati a spingere per un conflitto con Israele. Non rassegniamoci all’idea che questo accada».