Dal culto del successo all’elogio del fallimento: la parabola di Antonino Monteleone è una lezione di stile. Uno stile che oscilla tra la disperazione esistenziale e il manuale di auto-aiuto, condito da quel pizzico di autoironia che, forse, è la migliore eredità che gli resta dalla sua breve avventura in Rai. Già, perché Monteleone, passato dalle vette de Le Iene agli abissi di Rai 2, ha centrato un risultato storico: far toccare al suo programma, L’altra Italia, un glorioso 0,99% di share. E no, non è un errore di battitura.

Doveva essere un talk di approfondimento giornalistico. Doveva competere con i grandi programmi del prime time. Doveva rivoluzionare il panorama televisivo italiano. Invece, si è rivelato un naufragio talmente eclatante da diventare quasi poetico. Un affresco del fallimento contemporaneo, così esemplare da poter essere studiato nei manuali di gestione delle aspettative.

Monteleone, però, non si nasconde dietro un dito. «Gli ascolti sono stati una catastrofe dalla prima puntata e le cose sono anche peggiorate fino alla chiusura. Il mio 2024 è segnato da questo fallimento che i profeti del giorno dopo di cui siamo circondati dicono fosse ampiamente prevedibile».

Ma attenzione, l’uomo non si arrende: «Fallirò altre cento volte nella vita. Ma darla vinta a chi vorrebbe che tacessi, no, non me lo posso perdonare. Ho commesso uno sbaglio che non si ripeterà». Una dichiarazione che potrebbe tranquillamente essere scolpita su una targa commemorativa in ricordo del programma.

Tra una riflessione filosofica e una metafora degna di un poeta romantico, Monteleone ci regala anche un’immagine indimenticabile: quella delle bolle di sapone. «Penso che anche gli insulti più violenti abbiano l’impatto di una bolla di sapone. Alcune sembrano grandi, ma esplodono senza lasciare alcun segno. Forse hanno ragione loro. Anzi, hanno certamente ragione loro». Un attimo, però: se le bolle esplodono e non lasciano segni, allora perché siamo qui a parlare di questo memorabile disastro?

Ma Monteleone non si limita ai social. Dalla sua newsletter, lancia un nuovo messaggio, questa volta con un tocco di auto-afflizione: «Sono il conduttore di un programma di approfondimento giornalistico che ha registrato l’ascolto più basso di sempre. Un memorabile tonfo. Senza scusanti». E qui, onestamente, bisogna riconoscere che il ragazzo ha coraggio: confessare un flop del genere con questa schiettezza non è da tutti. Ma non illudetevi, perché subito dopo arrivano le attenuanti.

«La mia prima scelta era quanto di più lontano possa esistere da un talk di approfondimento politico», spiega. «Ho proposto un rotocalco di inchieste a condizione di avere le risorse utili per realizzare un prodotto di qualità. Quindi non solo i mezzi ma anche le persone giuste per farlo. È solo all’ultimo momento che mi viene chiesto di mettere per un po’ da parte questa idea per cimentarmi in un talk che se la potesse giocare alla pari in un campionato dove la concorrenza è già molto agguerrita». Un po’ come dire: io volevo fare il Picasso della televisione, ma mi hanno costretto a disegnare con i pastelli della scuola materna.

E poi c’è il giorno di messa in onda, un dettaglio che secondo Monteleone ha contribuito alla débâcle. «Mi viene spiegato quanto sarebbe stato difficile andare in onda il giovedì e che le prospettive sarebbero state di gran lunga migliori al mercoledì. Per cui dico bene, andiamo in onda il mercoledì. Non ci crederete: ci hanno mandato in onda il giovedì». Certo, perché è noto che cambiare giorno può trasformare un programma da flop a capolavoro.

E non finisce qui. Monteleone, con l’ardore di un detective noir, analizza ogni variabile: «Il programma non aveva niente, in meno dei suoi competitor. A parte il pubblico! Sento che avete sghignazzato. Ed è vero. Infatti abbiamo chiuso». L’onestà, dobbiamo dirlo, è disarmante. Ma è proprio questa schiettezza che trasforma il tonfo in un piccolo capolavoro di autoironia.

Nonostante tutto, Monteleone insiste che chiudere il programma sia stato un errore: «A differenza di chi ha deciso contrariamente, penso che sia stato uno sbaglio chiudere la trasmissione. Il mare calmo non fa marinai». Eppure, qui siamo più dalle parti del Titanic che di una tranquilla traversata.

Ma il vero tocco di genio è nella strategia comunicativa: trasformare un flop in una narrazione epica, dove il fallimento diventa quasi un rito di passaggio. Monteleone si pone come il guerriero sconfitto, ma mai domo. Non si limita a giustificarsi; crea un’intera mitologia attorno al suo tonfo. E così, mentre il programma si perde nell’oblio dei palinsesti, lui riesce a restare sotto i riflettori. Una mossa che dimostra, se non altro, che in Italia il fallimento non è mai davvero definitivo.

Alla fine, resta una domanda: questa capacità di trarre poesia da un disastro potrebbe essere la vera chiave del successo? Forse sì, perché Monteleone ha dimostrato che, anche nel fallimento, c’è spazio per una narrazione avvincente. Il pubblico può avergli voltato le spalle, ma l’arte di raccontarsi non l’ha abbandonato. E in un’epoca in cui tutto si gioca sul piano dell’immagine, questa potrebbe essere la sua vera vittoria.