Non basta ricordare, serve agire, ma a distanza di 31 anni la verità è ancora ben lontana dall’essere svelata. Le indagini rimangono aperte e molto spesso ripartono in salita. Chi più, chi meno ricorderà quegli anni ’80 in Sicilia, dove “la peste” era rappresentata da Cosa Nostra. Si parla della seconda guerra di mafia, in cui Palermo e la Sicilia hanno vissuto un periodo particolarmente sanguinoso

Una guerra tra famiglie, che ha causato centinaia di morti tra cui uomini di Stato, magistrati, giornalisti, preti e civili. Una guerra della Mafia contro lo Stato, di una violenza sanguinaria senza precedenti, arrivata con l’affermazione dei “Corleonesi” al comando di Cosa Nostra. Una nuova guida più sanguinaria e priva di scrupoli che portò all’arricchimento delle famiglie mafiose con particolari investimenti nel traffico della droga.  

Alcuni tra i più noti omicidi hanno inizio nel 1980 con l’assassinio di Piersanti Mattarella, il Generale Alberto dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e il poliziotto della scorta Domenico Russo. In quei primi anni ’80, senza dimenticare le stragi degli anni ’70, Cosa Nostra non ha intenzione di fermarsi e decide di colpire il pool antimafia con un avvertimento che segnerà l’inizio di una lunga serie di stragi , da Calogero Zucchetto l’agente di Polizia della Squadra Mobile di Palermo che viene fatto fuori perché prossimo a scoprire alcuni legami su cui stava lavorando con il vicecommissario Antonio Cassarà detto Ninni, il quale anche grazie all’aiuto del collega ucciso riuscirà a stilare il famoso “Rapporto dei 162” che svelò per la prima volta l’organigramma di cosa nostra. 

Cassarà verrà ucciso davanti alla sua abitazione assieme a Roberto Antiochia. Ma queste morti non restano impunite, qualcosa si smuove nella coscienza degli uomini e delle Istituzioni, poiché il 13 settembre 1982, pochi giorni dopo l’uccisione di Dalla Chiesa lo Stato ha reagito, con l’approvazione della legge antimafia. Legge che al maxiprocesso di Palermo permetterà di ottenere pesanti condanne, confermate in Appello e in Cassazione. 

Ma la violenza mafiosa che tutti ricordiamo e che ha risvegliato le coscienze sopite dell’Italia tutta ha avuto il suo apice nei primi anni ’90, con le stragi di Capaci il 23 maggio 1992 in cui persero la vita Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani per continuare il 19 luglio dello stesso anno con la strage di Via D’Amelio in cui morirono Paolo Borsellino, Manuela Loi la prima donna in una scorta, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina e Claudio Traina.

Durante le interviste effettuate nell’evento organizzato dall’ANM (Associazione Nazionale Magistrati) nella location del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) dove si trova la teca della macchina guidata dal Giudice Falcone, si è parlato di rose spezzate, cioè tutti coloro che hanno perso la vita per il contrasto alle mafie. Numerose così come numerosi sono i ricordi che li tengono ancora vivi. Fondamentale rimanere sulla strada tracciata, nonostante la verità sia ancora lontana. A detta di chi ha vissuto a stretto contatto con questi eroi si evince che nonostante ci siano persone che si impegnano quotidianamente da 31 anni nella ricerca della verità, queste subiscano a volte bruschi stop ripartendo da una strada in salita.

Giuseppe Ayala ex sostituto procuratore della Repubblica a Palermo, che rappresentò l'accusa nel primo maxi processo a cosa nostra non ha dubbi: «Quando lo Stato vuole c'è» e l’esempio lo porta con la costruzione dell’aula bunker del Maxiprocesso la quale fu costruita nel giro di pochi mesi. Parlando di Giovanni Falcone, Ayala dice: «Sono passati 31 anni, ma questo uomo mi è rimasto dentro. Abbiamo passato dieci anni di vita insieme, anche durante le poche vacanze che avevamo. Era un uomo d’un pezzo, serio e appassionato a ciò che faceva».

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