Il presidente Antonio Di Matteo ha una carriera onorata. E con onore governa la trincea del Tribunale di Vibo Valentia. Il presidio di legalità per eccellenza del territorio – il territorio maggiormente piagato dal fenomeno della criminalità organizzata – rischia di finire in affanno nel disinteresse generale del Consiglio superiore della magistratura. E questo dato, inequivocabile, preoccupa.

I maxi processi di ‘ndrangheta rappresentano una novità abbastanza recente per il Vibonese: ci sono sempre stati, sì, importanti (e numericamente estesi) procedimenti penali che hanno richiesto un supplemento organizzativo per garantire il pieno rispetto dei diritti reclamati da tutte le parti in causa; ma stavolta il quadro (o meglio: il caso) è completamente diverso. I “maxi” non soltanto sono tali, cioè veramente “maxi”, ma si stanno incardinando a ripetizione e incrociando gli uni agli altri al punto di sottoporre l’intero apparato giudicante a uno stress operativo senza precedenti.

In questo contesto, la reazione del presidente Di Matteo – persona schiva, avvezza al lavoro, allergica alle luci della ribalta – è la migliore garanzia che i cittadini vibonesi potessero avere per continuare a sperare che su un territorio invaso dalla malapianta della ‘ndrangheta ci sia ancora qualcuno disposto ad affrontare ogni tempesta pur di ottenere le risorse minime (indispensabili, quindi) per amministrare nel modo corretto il sistema giustizia.

Il servizio del collega Antonio Alizzi riaccende i riflettori su un tema che le nostre testate avevano ampiamente affrontato nei mesi scorsi: lo Stato non può rinnegare se stesso sostenendo da un lato la necessità di reprimere i reati attraverso mega inchieste (benedette dalla popolazione) rifiutando però, dall’altro lato, di fornire alle sue articolazioni territoriali gli strumenti idonei ad approfondire le ipotesi di reato per le quali sono state sottoposte a indagini centinaia di persone.

Quanto accade a Vibo Valentia, con il caso del presidente Di Matteo “costretto” a invocare un’audizione al Csm non ha precedenti a queste latitudini e restituisce un senso di smarrimento dal quale si può uscire soltanto attraverso l’assunzione tempestiva dei provvedimenti invocati. E lo smarrimento di cui trattasi deriva da semplici dati di fatto e interrogativi connessi: come è possibile che i maxi processi contro la ‘ndrangheta incardinati in altri Tribunali del centro e nord Italia si siano svolti in tempi rapidi grazie al potenziamento degli Uffici giudicanti, impedendo che si verificassero di riflesso intoppi su tutti gli altri procedimenti? E come è possibile, inoltre, che su altri fronti di battaglia la sensibilità di organismi con poteri decisionali abbia favorito l’adozione di misure straordinarie perché il naturale percorso giudiziario non rischiasse (neanche lontanamente) di subire incagli di alcun tipo?

La carenza di giudici e personale amministrativo al Tribunale di Vibo Valentia non era e non è una novità. Ma adesso assume i caratteri dell’emergenza perché le istanze pervenute dal territorio dovevano essere evase almeno un anno fa. Non tutto è perduto, purché non si tergiversi oltre. Di mezzo, stavolta, c’è davvero la credibilità del sistema giustizia.