Il Mezzogiorno occupa per il 60% il gradino più alto del podio nonostante gli atleti che vengono dal Nord siano molti di più. Eppure il Sud ha pochissime strutture sportive se paragonate a quelle presenti in altre zone del Paese. Esempio emblematico di una disparità di Stato che non può più essere nascosta (ASCOLTA L'AUDIO)
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Dieci medaglie d'oro alle Olimpiadi, tre da atleti pugliesi; da un calabrese d'adozione, ma nato in Texas, un'altra, anzi due, con la vittoria nella 400x100, insieme a un sardo e a due lombardi, uno di origine sarda, l'altro nigeriana; un'altra medaglia d'oro da un siciliano. I nomi si conoscete. Siamo a 6 medaglie su 10 (calcolando solo quelle di oro, ma ce ne sono alcune, come quella, storica, della campana Irma Testa, nella boxe, che pur essendo di bronzo valgono come platino: forse una delle storie più belle, se non la più bella, di questa Olimpiade).
Più della metà dell'oro italiano è terrone; ma su 384 atleti tricolore a Tokyo, i meridionali sono soltanto 66 (della sola Lombardia ne sono partiti 59); significa che il Sud, con un terzo della popolazione nazionale, è presente con un sesto della delegazione sportiva alle Olimpiadi, ma ha conquistato il 60 per cento delle medaglie d'oro (nella marcia, l'Italia aveva cinque concorrenti, di cui tre pugliesi, e due di quei tre hanno portato all'Italia la medaglia d'oro: maschile e femminile).
Per capirci ancora meglio: per stare alla proporzione, un sesto degli atleti (i terroni) avrebbe fatto la sua parte portando a casa una medaglia e mezza, invece ne hanno vinte quattro volte tanto. Forse non è superfluo dirlo in altro modo: ogni 303mila meridionali, uno è andato a gareggiare a Tokyo ed ha reso quattro volte più dei suoi colleghi del Centro-Nord, che ha inviato un atleta ogni 125mila abitanti.
Se state per commentare la sottolineatura geografica come inopportuna, magari con fastidio (il “sopracciò” del terrone evoluto o del patriota “siamo tutti italiani, basta con queste divisioni”, salvo dimenticarlo quando si tratta di dividere equamente i soldi per le strade, i treni, gli investimenti del Piano dopo-covid, con le risorse Recovery Fund destinate al Sud e dirottate al Nord), beh, abbiate un poco pazienza, tanto fate sempre in tempo a lavare la macchia sul tricolore, con una sciacquata di indignazione a senso unico.
Riassumo: un sesto degli atleti è meridionale, ma conquista il 60 per cento dell'oro. Qui potrebbe partire l'analisi sociologica, la spinta in più di chi parte svantaggiato e cerca il riscatto attraverso lo sport (i neri e i terroni dalla velocità al pugilato...), eccetera. Lasciamo perdere, non ora. Conviene riprendere l'ottima osservazione di Carlo Borgomeo, bravo presidente della Fondazione ConIlSud: nella “equa” distribuzione degli impianti sportivi, delle possibilità offerta ai giovani di fare sport, l'Italia non si smentisce: 41 metri quadrati pro-capite di aree sportive a disposizione dei minori, nel Nord-Est, appena 4 al Sud (e quel 4 è una media fra chi ha qualcosina in più e chi proprio niente); delle 10 province italiane con meno palestre, 9 sono meridionali e tutte e 5 le province calabresi sono fra quelle 9.
Quindi, non solo gli atleti terroni hanno reso quattro volte più (in oro) alle Olimpiadi, ma lo hanno fatto avendo a disposizione dieci volte meno aree sportive, palestre e attrezzature, rispetto ai loro colleghi del Nord.
Non per ripetermi, visto che ci ho scritto un libro, con questo titolo, ma: “Tu non sai quanto è ingiusto questo Paese”! La sintesi di quelle mie ricerche sulle disuguaglianze feroci con cui è stata costruita e viene governata l'Italia da un secolo e mezzo, è in un dato: per un disabile trentino, si spendono 15.141 euro di soldi pubblici all'anno, poco più di 1.200 al mese, per un calabrese con la stessa disabilità, 386 euro all'anno, poco più di 35 al mese. Il terrone vale 40 volte meno, per lo Stato italiano. Ed è una coincidenza (è una coincidenza?) che, pur avendo attrezzature dieci volte inferiori, gli atleti del Sud abbiamo reso quattro volte di più (di nuovo a 40 stiamo...).
Lo sport, per fortuna, nello sforzo comune per l'eccellenza, mette in competizione, ma affratella. E queste considerazioni scompaiono in pista, sui campi di gara. Ma è necessario dirlo fuori da lì, perché lo sport è uno degli strumenti più efficienti di coesione nazionale e recupero sociale.
Il Sud ha dato prove di orgoglio incredibili, nonostante lo svantaggio di partenza impostogli pure in questo campo: l'italiano più veloce di sempre, sui 200 metri, ancora imbattuto in Europa dopo 40 anni, Pietro Mennea da Barletta, doveva allenarsi su tratturi campestri e strade asfaltate, non avendo piste adatte; stupì il mondo (eravamo quasi coetanei; ero stato incluso nel gruppo sportivo della mia scuola, a Taranto, per i risultati nel salto in lungo, che a me interessava solo perché così saltavo le ore di laboratorio di meccanica, che non mi piaceva, e i dirigenti parlavano sempre di un portentoso ragazzino. Noi non ne sapevamo niente, domandavamo: «Ma chi cazz'è 'stu Mennea?»); il “circolo sportivo” dei fratelli Abbagnale era un ex rimessaggio fatto di tavole e lamiere, e dovevano allenarsi in mare, non in acque ferme, per la canoa, prima di andare a scuola, e poi nei campi ad aiutare il padre. Nessuno mai come loro, in quello sport. Un paio di anni fa, ricevemmo un premio insieme, Carmine e io, e gli chiesi di scambiarcelo, così rifilai a lui quello “per Pino Aprile”, mentre io ho in casa un trofeo “degli Abbagnale” (grazie ancora, Carmine).
E se non c'è famiglia che abbia dato più medaglie di loro all'Italia, non c'è palestra, e siamo ancora in Campania, che abbia dato più di quella di judo dei Maddaloni, che papà Gianni volle a Scampia, il quartiere simbolo del degrado sociale (ma andate a vedere oggi, che miracolo). Il vero combattimento quotidiano di Gianni son le bollette da pagare, eppure ha rifiutato tutte le offerte di portare altrove la sua palestra, magari in quartieri “alti” di Napoli, dove non avrebbe avuto problemi di soldi, né esentare frequentatori dalle rette, come fa a Scampia, con i ragazzi senza mezzi, i disabili...Gianni mi insegnò una cosa che non dimentico: la forza di questi ragazzi è la rabbia; spesa male, si rivolta contro la società che discrimina, ti esclude, educata da un allenatore con una visione, si trasforma in medaglie, risultati, crescita personale e sociale.
A Scampia c'è anche un centro sportivo per insegnare il calcio. Anche quello frequentato da centinaia di ragazzi affidati a decine di allenatori volontari, guidati da Antonio Piccolo. Quando il Centro nacque, anni fa, fra i sorrisini dei “saputi”, Antonio decise di iscrivere i suoi ragazzini al torneo europeo di calcio: ci massacreranno, ma sapranno che esistiamo, cosa stiamo facendo, disse. Vinsero, a sorpresa, la prima partita, poi sconfissero tutte le altre squadre e fecero la finale della Campania al San Paolo (oggi stadio Maradona) con il Napoli giovanile. Vinsero ancora, contro le rappresentanze di tutte le altre regioni italiane, e in Olanda, a rappresentare l'Italia, furono i ragazzi di Scampia.
Quanta forza c'è in questo Sud che cerca strade per affermare il suo valore? Quanto perde l'Italia, escludendo il Sud dalla corsa nazionale per l'efficienza, l'economia, il futuro? Quanto darebbe il Sud allo sport se avesse anche le palestre, le attrezzature che con i soldi pubblici solo alcuni italiani hanno e altri no? E quanto all'economia, se il Sud avesse i treni, le strade, le rotte non proibite verso i suoi porti, per arricchire solo Genova e Trieste, eccetera?
Lo sport è uno dei migliori termometri dei sentimenti e dei risentimenti di una comunità, come è noto, e va “letto” bene. È uno degli “ascensore sociale” che può portare singole eccellenze fuori dalla condizione di disagio, costrizione al meno. Ancora una volta, l'esempio più clamoroso è Pietro Mennea: era la negazione fisica del velocista, ossuto, sgraziato; i suoi avversari erano bronzi di Riace di muscoli e potenza, lui pareva storto, ma quando partivano... (l'attore Michele Riondino, che lo interpretò in uno sceneggiato-biografia, è elegante, bello, un fisico armonioso: dimostrò la sua bravura, riuscendo a... storcersi come Mennea). La Freccia del Sud correva “di testa”, contro tutto e tutti, persino contro se stesso, quando a Mosca entrò in crisi. Fu il suo avversario storico, Valeriy Borzov, che lo indusse a ritrovarsi, dicendogli quello che rendeva unico il barlettano: «Non ho mai visto tanta volontà in un uomo solo».
Ma quando quella volontà, quella consapevolezza, da conquista personale diviene collettiva, è un popolo che riscopre se stesso. Questa coscienza delle cose e della regione di un tale stato di cose (i diritti negati, le infrastrutture non fatte, le risorse sottratte) è ormai dilagante al Sud. E lo sport diviene un campanello d'allarme per il Paese. Ci crediate o no, dinanzi all'argomento: “avendo dieci volte meno palestre, gli atleti del Sud hanno fatto quattro volte di più”, potreste trovare l'imbecille (o razzista, o entrambe le cose) capace di dire: “Vuol dire che non ne hanno bisogno”!
Non è una ipotesi: quando si trattò di rubare ai bambini del Mezzogiorno i soldi per gli asili, l'argomento usato nella Commissione da un'esponente del Centro-Nord, fu: “Se non hanno asili, vuol dire che non li vogliono e preferiscono tenersi i figli a casa”. Quindi era “giusto” dare ancora di più a chi già ne aveva e niente a chi non ne aveva.
Beh, la lezione di Gianni Maddaloni vale sempre: quella rabbia al Sud, è rabbia ormai sociale, che può diventare medaglie o azione politica, perché c'è una medaglia ancora più importante da conquistare: quella dell'Equità. E da questa corsa, ormai il Sud non torna indietro.