Non è colpa del Covid il futuro. Di quale futuro parliamo? Quello che avremmo costruito se la pandemia, mannaggia!, non ci avesse fermato. Non prendiamoci in giro, non è così: non è per il virus che le cose davvero importanti (pure in assenza di pandemia) finiscono nel futuro lontano e mettiamo in quello prossimo, diciamo nel 2022 (come nel 2020 facemmo per il 2021, e via a scalare) le più abbordabili, mera continuazione del passato, magari proponendoci di farle un po' meglio, nulla di più. Come dire, andiamo sul sicuro, affidiamoci alle cose che conosciamo bene, che sappiamo di esser capaci di fare.

Non rischiamo. E così ci si abitua a pensare che siano lontani da noi, nel domani dei figli, dei nipoti, il posto e il tempo delle cose davvero importanti, che ci porterebbero fuori dalla palude delle disuguaglianze che, con il potere della corruzione, danno sempre più a pochi e sempre meno a tutti gli altri; in attesa delle persone, dei leader straordinari che sapranno guidarci...

Beh, non è così. Tante di quelli che celebriamo come persone di visioni e volontà fuori dalla norma, sono diventate miti infilandosi in un'impresa, a volte, senza una vera, seria analisi delle difficoltà, per eccesso di fiducia, desiderio e semplificazione e conducendola a termine, solo perché ormai non si poteva più tornare indietro. È il racconto a cose fatte che, per rendere coerente l'eccezionalità dell'impresa con le qualità di chi l'ha compiuta, ne innalza l'artefice. E costruisce la distanza che giustifica le nostre pigrizie, le paure, i rinvii a momenti più opportuni, a circostanze più favorevoli, all'attesa di compagni di viaggio più numerosi o capaci.

Brutto doverlo dire: sono palle. Il momento è adesso e le circostanze non le puoi scegliere: la vita è quando viviamo, non quando andrebbe vissuta. La psicologia sociale conferma (lo ricordo spesso) che “Persone ordinarie fanno cose straordinarie”, solo perché invece di aspettare che qualcuno le faccia, le fanno: vabbuo', Alessandro il Grande era il grande, anche se divenne re a 16 anni e ne aveva meno di venti quando partì alla conquista del mondo conosciuto; la rivoluzione francese fu opera di ventenni e potremmo continuare, voi e io, con esempi simili.

Per poi porci la domanda: com'è che i giovani sono più impazienti dei vecchi? Non dovrebbe essere il contrario? Ai più anziani resta meno tempo per sperare di vedere il “mondo migliore”. Ma sono spesso loro a frenare i giovani, forse perché le sconfitte della vita inducono a lasciar perdere, al “tanto ormai...”, “si sa come vanno le cose” o alla paura di perdere pure il poco che si è costruito. Si chiama la rinuncia “saggezza”, “moderazione”, ci si assolve e si sposta l'impegno sulle spalle delle generazioni a seguire. Insomma, un modo per dire ai più giovani: cavoli tuoi; lasciando loro in eredità le questioni che appaiono irrisolvibili.

Veniamo da due anni durissimi: siamo arrivati alla batosta del Covid-19 con una economia ferma da una ventina di anni (zero virgola più sotto che sopra, mentre il resto dell'Europa, nello stesso periodo, cresceva di due cifre), nonostante il supponente bla-bla della sfiatata “locomotiva” delle regioni padane arraffa-tutto. Siamo stati il primo Paese a essere colpito dal virus e la Lombardia per settimane è stata la regione che peggio ha reagito (l'assessore-macchietta alla Sanità si è dovuto dimettere; il presidente è sotto inchiesta per un appalto, insieme ai suoi cari); centinaia di migliaia di persone son state fatte liberamente uscire dalla zone infette per dilagare in quelle rimaste indenni, diffondendo il virus, invece di aiutarle sul posto (stare sulle spese con le aziende chiuse e senza reddito, università in didattica a distanza) e controllarle prima che partissero.

La nostra economia è quella che ha avuto il crollo più vistoso. Il 2021 è stato degno erede dell'anno precedente, anche se ce la siamo cavata meglio. Il tutto, con la politica allo sbando, il parlamento incapace di esprimere un capo di governo, tanto che i partiti di maggioranza (mutevole e poi caotica) e il presidente della Repubblica hanno dovuto cercare fuori, prima Giuseppe Conte, poi Mario Draghi, chi porre al timone del Paese, perché non finisse sugli scogli fra elezioni locali, crisi di governo, minaccia di scioglimento delle camere e ora scadenza del mandato presidenziale di Sergio Mattarella e manovre per la scelta del successore

Il tutto, mentre in Calabria, morta la presidente Jole Santelli, per rinnovare il governo regionale, fra chiusure per pandemia e slittamenti obbligati, si trascinava una lacerante campagna elettorale di quasi un anno e, contemporaneamente, partiva il più grande processo di sempre alla 'ndrangheta (per l'esattezza, contro quella del Vibonese e i Mancuso di Limbadi, la cosca più “liquida”, nel senso dei soldi, del continente).

Ci sono tutte le giustificazioni per dire: in circostanze tali, aspettiamo che passi la tempesta e poi ci rimboccheremo le maniche. No: è vero il contrario; è proprio quando la casa scricchiola che devi darti da fare, intervenire, fare quello che non faresti mai se le cose andassero bene o non così male. Finché in un modo o nell'altro si tira avanti, pur con difficoltà, si ha timore di toccare palla, per non rischiare di far precipitare quanto è già precario; ma se il disastro c'è già, e più precipitati di così è difficile, non c'è nulla o molto poco da salvare. Quale altro momento, se non quello dello sconquasso, per fare quanto non si è avuto il coraggio, la convenienza di osare prima? La vita evolve per catastrofi, insegna la biologia. Dall'Italia, alla Germania, al Giappone, fu l'economia dei Paesi più devastati, che avevano iniziata e persa la guerra, a segnare, poi, i primati mondiali di crescita.

La tragedia della pandemia di Covid ha fatto capire anche ai ciechi e sordi (tranne chi vuol essere cieco e sordo, vedi il sindaco di Milano, Beppe Sala; il presidente Pd dell'Emilia Romagna, Stefano Bonaccini; il presidente leghista del Veneto, Luca Zaia, i ministri più potenti di questo padanissimo e antimeridionale governo Draghi, incluso super-Mario, eccetera), che senza il Sud a trainare il Mediterraneo in Europa, l'Italia e forse la stessa Europa affondano.

Invece, con il Pnrr, il Piano nazionale per la ripresa e la resilienza, il governo italiano rastrella i miliardi europei destinati al Sud e li brucia al Nord, per esempio per tenere in “realtà aumentata” i porti di Genova e Trieste, uccidendo quelli del Sud, primo fra tutti Gioia Tauro, più vicini alle rotte commerciali e migliori per fondali, retro-porto e altro.

L'Italia è il Paese che più di tutti potrebbe cogliere i vantaggi della ricostruzione obbligata. Reagisce, invece, esasperando i difetti e l'egoismo di pochi che l'hanno ridotta a più scalcagnata d'Europa, già prima del Covid.

E quale momento se non questo sarebbe più adatto a un colpo di reni della politica meridionale, per imporre al Pun, il partito unico del Nord di cui il governo è espressione ed ostaggio (incluso le truppe cammellate terroniche scodinzolanti), il rispetto dei diritti fin qui negati ai meridionali (dalla Sanità ai Trasporti, i servizi, il lavoro, gli investimenti pubblici)?

È ora che un'azione politica forte e unitaria dei rappresentanti del Mezzogiorno avrebbe un peso enorme, non potendo permettersi il governo di avere un problema grave di coesione territoriale in pieno marasma, né di essere chiamato a giustificarsi a Bruxelles (dove già si prende in considerazione la possibilità di non inviarci più i soldi del Recovery Fund, perché li si usiamo per aumentare le disuguaglianze, invece di ridurle).

Questo è il momento in cui, unite da un po' di coraggio, l'esperienza degli anziani e l'impazienza dei giovani potrebbero rivoltare il tavolo, cambiare la storia e il futuro. Ora, 2022, non “quando le cose andranno meglio”: andranno meglio se le faremo andare meglio, se attaccheremo al muro il governo Draghi, facendo l'iradiddio, finché non metterà fine al boicottaggio di Stato dei porti del Sud (vergogna per i ministri e i parlamentari terroni “collaborazionisti”, perché questa è una vera e propria dichiarazione di guerra al sistema-chiave della crescita economica del Mezzogiorno. I loro nomi, prima o poi, dovranno pur finire su una colonna infame, magari sullo Stretto).

Ma il Sud non può e non deve nemmeno giustificare il fallimento (che ci sarà se non reagiremo), con l'ascarismo dei suoi rappresentanti “a Roma” (e i presidenti di Regione te li raccomando). Si può comunque e sempre far qualcosa, anche senza di loro e, politicamente, contro di loro. Si può, facendo ognuno al meglio quello che sa fare e insieme ad altri (sapete a quanto devono cedere l'olio della Piana i nostri piccoli produttori? Meno di due euro a litro, mi racconta un ragazzo rimasto per occuparsi dell'uliveto dei suoi: «Mio nonno emigrò in America per comprare questa terra: la piantagione e la famiglia nacquero insieme»).

È il 2022 l'anno che aspettavamo. Perché? Perché non c'è ragione di aspettare il 2023 e abbiamo già perso il 2021. Il futuro è adesso, comincia quando (per migliorare il nostro quartiere, vendere meglio l'olio della Piana...) metteremo il nostro nome al posto di “qualcuno”, senza aspettare che lo faccia prima un altro.
Buon anno.