La consultazione popolare sulla giustizia è stato un flop storico, il peggior risultato di sempre che esprime comunque una linea di pensiero del Paese che chiede una politica seria in grado di decidere sulle questioni più importanti
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Il flop dei referendum sulla Giustizia non può essere derubricato a fatto di costume italico, quasi che la voglia di andare al mare sia stata più forte della necessità di riformare il Paese. A impressionare non è tanto il mancato raggiungimento del quorum, ma la percentuale di votanti: la più bassa nella storia d’Italia, il 20,9%. È una sconfitta politica pesantissima per Salvini e la Lega, per i Radicali e per chi li ha sostenuti.
Alcuni dei cinque quesiti pongono questioni serie, che potevano essere affrontate a livello politico e sociale, ragionando con serenità su ciò che è meglio per gli italiani. Invece – con un perfetto harakiri – i promotori dei quesiti hanno lasciato strada libera a chi ha trasformato il ragionamento sulla riforma della Giustizia in una campagna contro la magistratura in generale e contro alcuni magistrati in particolare, oltre che contro la stampa rea di non essere tutta allineata con le posizioni dei Sì.
A parte i digiuni di Calderoli, qualche comizio improvvisato e le iniziative estemporanee, la portata dei quesiti è stata affidata a parole d’ordine sbagliate: parole che qualcuno, erroneamente, ha ritenuto potessero far breccia sull’opinione pubblica. Da qui la sconfitta annunciata di chi ha mostrato di non conoscere affatto l’elettorato e le convinzioni profonde radicate nella società.
Basti pensare che, nel flop generale, i quesiti che hanno fallito di più sono proprio quelli che avrebbero dovuto colpire maggiormente l’immaginario collettivo. Analizzando i dati dei quesiti sulla legge Severino (incandidabilità dopo la condanna) e sulla custodia cautelare i favorevoli prevalgono di poco: rispettivamente intorno al 54% e poco sopra il 56%. Tutti quelli che non sono andati a votare o hanno detto No sono forcaioli? Oppure c’è ancora una domanda di etica, di trasparenza, che si scontra con la narrazione di una Giustizia in cui pesano sempre e solo gli errori giudiziari e poco o niente le azioni contro la corruzione e contro la mafia?
Chi si rende conto che questo flop può essere devastante è il presidente dell’Unione Camere Penali Giandomenico Caiazza che, in un’intervista al Corriere della Sera, parla di un’organizzazione estemporanea e improvvisata.
E qui non vale la solita tiritera sulla disinformazione, sul ruolo dei media, sul servizio pubblico assente, sui giornalisti che si sono messi di traverso. Come gli stessi sostenitori dei Referendum sulla Giustizia sanno, se tra i quesiti ammessi ci fossero stati quelli su fine vita o cannabis probabilmente l’affluenza alle urne sarebbe stata un’altra. Senza parlare del fatto che, purtroppo, l’esito di questa tornata rischia di incrinare ulteriormente il rapporto tra gli italiani e l’istituto referendario, che è stato lo strumento per grandi battaglie di civiltà nel nostro Paese, come l’aborto e il divorzio.
La Riforma della Giustizia ora passa dal Parlamento sotto l’egida del ministro Cartabia. È importante capire che il peggior risultato referendario della storia italiana ha già, in qualche modo, manifestato una linea di pensiero del Paese. È un’Italia che non vuole vendette, condizionamenti o provvedimenti avventati, che non vuole riforme “contro”, ma ragionamenti alti e di sistema su questioni così delicate che incidono sulla vita di tutti.
La politica ora deve decidere. Ma invece di far finta di interpretare i voleri di un Paese che non esiste deve fare i conti con il Paese che, invece, c’è.