INTERVISTA | Ivano Daffinà, nome e volto noto dell'enogastronomia calabrese, è oggi saldamente a capo del ristorante Il Simposio, cuore pulsante della cantina romana famosa in Italia e in Europa
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Gli amanti del vino conoscono bene Costantini a Roma. È, semplicemente, uno dei templi dell’enologia italiana. Una delle enoteche più prestigiose d’Italia, che con l’omologa fiorentina Pinchiorri e pochi altriforzieri enogastronomici si contende il podio d’un parterre i cui membri si contano sulle dita d’una mano.
Nata nel 1972 in piazza Cavour, prima enoteca della Capitale, oggi conta 10mila etichette, sparse lungo 800 metri quadri di percorso sotterraneo e non. Una città del vino di rara suggestione. Un ambiente difficile da dimenticare, dopo la prima visita.
Proprio qui, da qualche tempo, si parla calabrese. E lo si fa grazie alla gestione del suo ristorante, il Simposio, che impegna, dal 2015, un vibonese Doc: Ivano Daffinà, titolare di Filippo’s, prima enoteca moderna e pioneristica della Calabria, nata nel 2006, ed ancora oggi prezioso porto franco del buon bere calabrese, grazie alla guida esperta della sorella Franca. È stato lui, con l’adozione della vendita a calice, oltrechè in bottiglia, a porre fine al provincialismo arcaico del consumo del vino usato sino a 15 anni fa. Emblematico, oggi, che il primo “oste” moderno della regione sia a capo del ristorante della prima enoteca di Roma. Ma si sa: le coincidenze, non esistono. È il destino, è la passione, è la vocazione, a regolare le nostre vite.
Un vibonese a Roma
E anche se destino e passione lo hanno portato lontano, a gestire una delle realtà più esclusive della Capitale, non per questo Daffinà smette di tornare a Vibo ogni dieci, quindici giorni: continuando a esportare e riproporre le eccellenze della sua terra. Ivano è uno degli alfieri del Rinascimento enogastronomico calabrese. E anche la sua, è una bella storia. Un percorso nato in seno al ristorante di famiglia, il Daffinà appunto, ben noto ai gourmet della provincia ipponiana. Lì, sin dagli 8 anni, si affaccendava e trotterellava per emulare mamma e papà. «Non ricordo di preciso quando ho iniziato a lavorare nel ristorante - racconta -. Da bambino era quasi un gioco: poi, a 14 anni, sono entrato in sala stabilmente. E a 16, 17 anni mi sono innamorato del vino, iniziando a collezionare etichette antiche, rare. Una passione che mi è rimasta anche oggi, a Roma: e che mi permette di proporre i nostri vini migliori con cognizione di causa».
Lei osserva il mercato da un osservatorio privilegiato. Quanta strada c’è da fare, per affermare definitivamente il vino calabrese?
«Gli appassionati già conoscono ed apprezzano molta della produzione regionale, ma la strada è ancora lunga. Di solito, quando propongo al cliente un vino della nostra regione, la risposta dell’utente medio è sconfortante. «Perché, in Calabria si produce vino?», mi chiedono. e quando assaggiavano vini tipo lo Jachello di Russo e Longo, rimanevano esterrefatti, si meravigliavano. Segno che la comunicazione è assente: e lo è ancora oggi. Se pensiamo poi che in Europa abbiamo vino grazie a Calabria Basilicata, Puglia e Sicilia, ai nostri vitigni risparmiati dalla Fillossera (la malattia che distrusse tuti i vigneti d’Europa alla fine dell’Ottocento, ndr), la cosa è ancora più grave».
Come si spiega questa rimozione identitaria del vino regionale?
«Purtroppo, a differenza della Sicilia, dai noi il vino era fatto dai poveri per i poveri. In Sicilia, il vino era per i signori. C’era la Corte. E questo, ha favorito lo sviluppo di metodi, zone di coltivazione, cultura. Un affinamento dei processi che non è avvenuto. In Calabria, fino a 30 anni fa, il vino era fatto con le stesse tecniche di cinquecento anni prima. Da noi, fino agli anni 40’, ‘50 e ‘60, c'erano tantissime cantine. Ma l’impostazione era pastorale. Non c'era consapevolezza: e per questo, abbiamo distrutto in pochi decenni gran parte dei nostri vigneti, per lasciar spazio ad altre coltivazioni. La nostra rivoluzione, la dobbiamo a Nicodemo Librandi. È stato lui, producendo il Critone, Terre Lontane e Gravello, a far parlare per la prima volta dei vini calabresi. Poi, tutti si sono accodati».
Il Cirò ancora detta legge, tra le produzioni?
«Il Cirò è il vino calabrese per eccellenza. Ha il nome. Cosenza, che pure con le sue produzioni e con le sue tecnologie è più avanti del territorio crotonese, non ha ancora insediato la fama del Cirò».
Cosa va fatto, in futuro, per potenziare il settore?
«La reazione al vino calabrese è ancora dubbiosa. Per conquistare la maturità necessaria ad emergere definitivamente, bisogna lavorare sulla distribuzione, sulla rete di vendita dei vini calabresi. Anche perché il periodo è buono: ma bisogna saper agire con criterio. Il paradosso è che molte delle agenzie del vino hanno risorse e venditori calabresi, comunque restii a proporre il vino della sua terra. Non vogliono distribuirlo, sono scettici. Le cantine dal canto loro, non hanno reti di vendita autonome. E francamente, non so come pensano di poter gestire i mercati extraregionali, con questo approccio. Dobbiamo ancora fare molto. Pensiamo al Vinitaly, a come vengono spesi i soldi, all’organizzazione folle: di chi sia la colpa francamente lo ignoro, ma di certo non aiuta il settore. Si salvano solo quelli che vanno autonomamente, con il loro stand. Ed è un gran peccato perché oltre all’enologia, abbiamo anche un’enogastronomia splendida».
A Roma cucinate calabrese?
«Siamo un punto di riferimento nazionale: non posso proporre solo il cibo regionale. Il nostro chef è salentino: è giovane ed è un entusiasta. Si chiama Claudio Favale, è lo chef della trasmissione La prova del cuoco, ed ovviamente ama la cucina del Sud. Io lo favorisco, visto che sono sempre in Calabria a cercare qualità e prodotti, e ne uso molti. La nostra produzione è talmente alta, che potremmo cucinare con quattro prodotti in tutto: nduja, cipolla rossa, olio e formaggio del Poro».
Quanti corregionali vengono a trovarla?
«A Roma ci sono circa mezzo milione di calabresi. E molti ricoprono incarichi di rilievo. Vengono da noi, anche spesso, e sono sempre ben disposti ad una proposta gastronomica che esalti la loro terra».
Quando torna in Calabria, va a cena fuori?
«Certo. A Lapprodo di Vibo, uno dei più importanti ristoranti della Regione, che aveva la stella Michelin quando gli altri ancora lavoravano con i piatti di plastica. Aggiungo anche Pietro e Emanuele Lecce, a Camigliatello e lo Zenzero di Serra San Bruno».