Il tesoro della Calabria che fa gola a chi se ne intende: «Sapori unici»

INTERVISTA | Antonio Boco, giornalista e critico enogastronomico del Gambero Rosso, tesse le lodi di una regione che appare come la terra promessa della buona cucina e dell’enologia. «Il sottosviluppo degli scorsi decenni ha preservato la genuinità»

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di Monica La Torre
22 gennaio 2019
16:14
Antonio Boco
Antonio Boco

Antonio Boco, prima di essere giornalista del Gambero Rosso, e prima ancora di essere fondatore del blog Tipicamente, è un giovane professionista pazzo d’amore per il suo mondo: quello del vino e del cibo. Un amore iniziato da ragazzo, in Portogallo, durante la stagione della vendemmia, la cui visione ne stravolge ambizioni e prospettive, e lo farà tornare in Italia con una convinzione: quella di diventare giornalista enogastronomico.

 


Il giornalista in vigna

«Papà, trovami lavoro in una vigna!», chiederà al rientro dalla Valle del Douro ad un padre attonito, rimasto fermo allo studente di scienze politiche con ambizioni giornalistiche, certo, ma più tradizionali: «Voglio scrivere di vino, e voglio cominciare dal basso», spiegherà alla famiglia. E così è stato. Fatica, sudore, vigneti: e “tanta strada nei suoi sandali, quanta ne avrà fatta Bartali”, alla ricerca di cantine da scoprire tra Francia e Italia, Nord Europa e profondo Sud. Su tutto, 17 anni fa, il master in giornalismo e comunicazione enogastronomica del Gambero Rosso, al quale seguirà lo stage interno. Rifiuta la convocazione in pianta stabile («Sì, nella mia vita ho fatto anche scelte azzardate come questa, ma avevo troppa fame di conoscere per chiudermi in redazione», dirà Antonio a tale proposito): ma inizia comunque la collaborazione con la guida Vini d’Italia. Aree di competenza, prima l’Umbria ed oggi la Toscana, con lo sguardo aperto su tutto il panorama nazionale, in qualità di collaboratore speciale. Ecco come ha risposto alle nostre domande.

 

Cosa troviamo, al Sud?
«Rotolare verso sud è una delle cose che preferisco. C'è sempre un pizzico di avventura, un misto di stupore e allegria nello scoprire il bello e il buono del mezzogiorno. A tavola è spesso festa, i sapori delle materie prime divampano».

 

E in Calabria?
In Calabria soprattutto, sta succedendo tanto. È come se la regione si fosse salvata. Non ha partecipato al gran ballo del rinascimento enologico italiano, quello per intenderci che negli anni ‘90 e nei primi anni 2000 che ha rivoluzionato la nostra enologia. È rimasta fuori dalla corsa modernista. Ci sono stati, certo, dei brand come Librandi, che hanno affrontato un percorso di crescita aziendale individuale. Ma a livello di territorio, il suo essere rimasta indietro non è più considerato un handicap. Bensi, paradossalmente, un vantaggio. Grazie all’isolamento, la Calabria enogastronomica sta vivendo un momento magico. Il turbomodernismo, che non c’è stato, non ha travolto le tradizioni autoctone, le caratteristiche locali ancora in piedi. Non ha intaccato l’impronta artigianale, che con il nuovo modo di intendere e valutare il prodotto, è la cosa più ricercata, più importante.

 

Che si intende per nuovo modo di valutare?
Negli ultimi anni, nel mondo del vino così come in quello dell’enogastronomia, è cambiato tutto. Sono entrate in campo parole d’ordine inedite: vini artigiani, naturali. Concetti di eleganza, territorialità. Io, ad esempio, mi diverto molto di più adesso che all’inizio degli anni 2000, dove tutto era più semplice e più noioso, ed i vini alla fine si somigliavano tutti. La rincorsa modernista di quegli anni, anche se è stata utile perché ha spazzato via la sciatteria del passato, ed ha imposto comunque nuove tecnologie, alla fine è risultata un processo artificioso: è stata spazzata via. Proviamo a leggere i giudizi di una guida oggi, ed una di 20 anni fa: il cambiamento è evidente. Si apprezza la rappresentazione territoriale, l’unicità, nel vino come nella ristorazione.


Quindi? Oggi va di moda la Calabria?
Certo! Possiamo dire che si capisce perché, da almeno due anni a questa parte, è sulla bocca dei critici più smaliziati. Più attenti ad intercettare le nuove tendenze. Prendiamo la ‘nduja: il prodotto più contemporaneo che si possa trovare, il più trendy del momento. Tra gli chef, il suo impiego è considerato un marchio di grande personalità. Io, personalmente, l’ho trovata in tantissimi ristoranti d’Europa. Da Perugia a Copenaghen. Ed al tempo stesso, è emblematica della nuova attenzione che si ha verso il prodotto calabrese. Così come i critici: moltissimi sono calabresi. Del resto (ride) si dice che i calabresi siano sempre dappertutto...

 

Il nostro punto di forza?
La Calabria è la perfetta espressione dei desiderata degli appassionati, degli addetti ai lavori, dei bevitori consapevoli. Ha un’identità territoriale forte. Magari aspra, ma proprio per questo ancora più attraente. È una terra originale, che dopo la sbornia modernizzante offre un’identità vera: e l’identità, oggi, è l’unica cosa che conta. Pazienza se l’altra faccia della medaglia è un’immagine raffazzonata. Non interessa più a nessuno, che il prodotto sia comunicato bene. Non è detto che comunicando di più, si ottengano risultati migliori. Anzi: la comunicazione strillata è passata di moda. Per la fascia del consumo “altospendente”, non ha importanza una bella presentazione. Chi investe, e ha gusti consapevoli, cerca terre di grande originalità. Luoghi piccoli, familiari. Il valore più richiesto è la purezza di ambiente e prodotto. L’autenticità, l’unicità, l’incontaminato: per intenderci, la signora col cesto, il pastore che ti vende il formaggio fatto da lui, il contadino che ammazza il maiale e ti fa assaggiare i prodotti in casa. Questa, oggi, la spinta di chi viaggia e va a visitare Beirut, piuttosto che la Locride.

 

A livello personale, cosa cerca nel mondo del vino?
Sono un divoratore di cantine e territori. Amo la sensazione di non essere mai straniero, di non essere un ospite, ma di far parte dell’insieme, essere dentro questa cultura. Un passe partout che apre le porte ancora prima ancora del tuo arrivo. Tra i luoghi che amo, anche e soprattutto al Sud, in Francia come in Italia, quello delle periferie del vino. È come per l’urbanistica. Se vivi in centro, tutto è molto facile. La tradizione però pesa, hai meno stimoli. Vivi comodo, ma c’è poca innovazione, poco spazio alla creatività. In periferia, ti senti più libero, puoi diventare un graffitaro fichissimo, puoi permetterti un tratto stilistico meno confezionato e meno stratificato nel tempo. Idem, nella gastronomia e nel vino. Microterritori, micro cantine, artigianalità, territorialità: il Sud e le sue periferie sono un cantiere con lavori in corso, in costante fermento produttivo. Lontani dall’omologazione, dal modernismo.

Giornalista
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