VIDEO | I gioielli del designer crotonese possono vantare estimatori anche in Vaticano e nel jet set internazionale. Raggiunto nella città dove vive e lavora, l'artigiano ha una sola ricetta da consigliare: «Smetterla coi piagnistei e impegnarsi qui, in Calabria»
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Da Bergoglio a Sofia Loren, dai Marlene Kuntz alla Levi Montalcini, da Benedetto XVI a Carlo Maria Martini, passando per Gianni Morandi, Arisa, Rita Pavone, Pippo Baudo, e per trent’anni di jet set internazionale: la carriera di Michele Affidato, orafo crotonese da anni attivo tra Vaticano, Unicef, Pontificia università lateranense, Festival di Sanremo, per non contare le Fashion Week d’Europa, tocca tutti i punti di una rete di relazioni eccellenti. E alla base di tutto, c’è un solo, vero punto di forza: rimanere in Calabria».
Affidato: «Che fate voi per la Calabria?»
«L’altro giorno stavo parlando con degli imprenditori trasferitisi al Nord. Si lamentavano della Calabria, criticavano, giudicavano… non gli andava bene niente. Beh, sono sbottato. “Ma voi che state facendo, per questa terra?”, gli ho risposto. Per il nostro Sud, per farlo crescere… che fate, oltre a criticare?” Si erano trasferiti, avevano scelto di partire, di non rimanere e lottare. E allora, a mio parere, non c’è molto da lamentarsi. Così, senza mezzi termini, il designer racconta la sua scelta di rimanere al Sud. Raggiunto nel laboratorio orafo del suo show room di Crotone, nella città che lo ha visto nascere come uomo e come stilista, e dove ha scelto di rimanere, ha espresso un parere inequivocabile su quale debba essere la strada da percorrere: restare, lottare e lavorare da qui. Dalla Calabria».
Basta piagnistei?
«Che brutto quando criticano senza mezzi termini la nostra regione, e a farlo sono imprenditori che si sono trasferiti al Nord: perché parlare da lontano? Basta piagnistei, dico io: cerchiamo piuttosto di investire sulla nostra economia e sui nostri giovani, torniamo a valorizzare abilità, cultura, bellezza, patrimonio – sostiene Affidato -. La Calabria ha tesori ineguagliabili, che non siamo mai stati capaci di raccontare per bene. Siamo soliti ripetere: “nemo propheta in patria”. Ma io mi sento apprezzato, compreso e valorizzato dalla mia città, dalla mia terra e dalla mia gente. Senza le mie radici, senza la famiglia, senza la città a sostenermi lungo il percorso, non avrei raggiunto gli stessi obiettivi». E in effetti, va detto che nella vita di Michele Affidato i riconoscimenti, le soddisfazioni, le manifestazioni di stima non sono mai mancate: sin dai primi anni della sua attività, nata nel 1987, e che oggi supera la soglia dei 32 anni».
Quando decide di diventare orafo?
«Ho iniziato a creare collane, bracciali e monili con cuoio, caucciù, conchiglie e filo intrecciato sin da quando ero bambino. Anche per questo, a 12 anni sono entrato nella bottega di un orafo: facevo la seconda media, e da quel giorno non ho più smesso di alternare la scuola al lavoro. Nell’87 apro l’attività. Ricordo che i primi tempi sono stati tutti in salita: facevo piccole riparazioni, e i primi gioielli su commissione: non avevo il denaro per investire in materie prime. Ci ho messo tre anni per poter reperire i materiali indispensabili a creare una collezione tutta mia: ma quando ci sono riuscito, è andata subito come doveva andare. La mia arte piaceva, era apprezzata. Le donne della mia città mi hanno subito gratificato, e molte associazioni femminili hanno iniziato a rivolgersi a me per le loro iniziative».
Come nasce un gioiello?
«Ho un approccio assolutamente visivo. Spesso non ho bisogno di un disegno, di un progetto dettagliato. Elaboro e cambio in corso d’opera, e non riesco a stare fermo a lungo su un’idea. Nel momento in cui l’oggetto è definito, corro col pensiero alla creazione successiva. Sono molto veloce. Quanto all’ispirazione, è sempre legata alla storia, alle radici, all’arte ed alla cultura della mia regione».
Quali sono i suoi riferimenti iconografici e stilistici?
«Traggo spunto dall’arte del passato, dall’oreficeria magnogreca a quella bizantina, dagli elementi arabi alle lavorazioni arbreshe, dai motivi ornamentali ispirati ai rosoni delle antiche cattedrali, passando per la forma delle loro cupole».
Un esempio concreto?
«Uno degli elementi a me cari, ad esempio, è la trasposizione preziosa del teorema di Pitagora. Tre pietre inscritte in elementi aurei ed argentei, secondo regole geometriche ben precise. E ancora: la lavorazione di perle del diametro di un millimetro è alla base delle creazioni ispirate all’arte bizantina. Le jannacche, filigrana lavorata in chicchi cavi, sono mutuate dall’alto artigianato arbreshe. Ma l’esempio più concreto dell’appartenenza è soprattutto il voler continuare ad operare in Calabria, nel cuore della mia città, con artigiani della mia terra, uomini e donne che capiscono l’importanza delle origini, e sanno esprimerlo al meglio. Questo è il valore aggiunto che la Storia dà alle mie creazioni. Molti, una volta raggiunta una certa notorietà, iniziano a delocalizzare le produzioni. Così facendo, se da un lato si abbattono i costi, dall’altro si perde originalità, si tagliano le radici con la Storia. Si compromette la propria d’identità, ed io non potrei mai farlo. Ecco perché sono sempre voluto rimanere qui».
Negli anni, ha collezionato importante committenze sacre. Come definisce questa sua sensibilità?
«Il rapporto con l’arte sacra e con i suoi committenti è diverso da quello che si può instaurare con clienti, anche importanti, del mondo dello spettacolo, della moda, del lusso. Quando lavori su un’icona, o pensi ad un’opera per un luogo di culto, devi entrare in sintonia con la spiritualità che la accompagna, che la rende importante. Devi rispettare ciò che i fedeli sentono, tornare all’origine della devozione. È una ricerca, un percorso a ritroso. Ed in questa ricerca, si inserisce il processo creativo. Questa sensibilità mi ha permesso di conoscere e lavorare per gli ultimi tre papi, realizzando tra l’altro gli stemmi dei pontefici Benedetto XVI e Francesco».
Lei è tra i fautori di un importante gemellaggio di fede tra la Polonia e Crotone...
«Certo, e ne sono orgoglioso. Tutto nasce con l’incarico di realizzare il diadema della Madonna di Czestochowa tanto cara a papa Woytila: una circostanza che determina da subito un legame forte tra i due territori. Il sodalizio, tra l’altro, culminerà il 17 maggio con l’apposizione di un’icona nel Santuario di Capocolonna, alla presenza di una delegazione di fedeli polacchi».
Passando dal sacro al profano: da anni il suo nome è legato al festival di San Remo.
«Sono l’orafo che realizza i premi speciali: quelli che raccontano e celebrano la storia della canzone italiana nel mondo. Una presenza ormai consolidata, che mi ha permesso di conoscere da vicino i mostri sacri della musica italiana, le storie legate alle melodie che hanno accompagnato la nostra vita, gli aneddoti sui grandi raccontati dai grandi. Se penso a quando, da ragazzo, correvo dalla tv allo stereo per registrare le canzoni di ogni Festival, mi rendo conto di aver percorso una strada lunga… e tuttavia, credo che non si debba mai sentirsi arrivati. Bisogna avere la consapevolezza dei tempi, delle sfide, del futuro».
Cosa consiglierebbe ad un giovane che vuole rimanere in Calabria, ed investire?
«Gli direi che è una scelta difficile, ma da perseguire. Tutto il mondo sta correndo, ed il nostro Paese sembra rimanere al palo, rischia di diventare il fanalino di coda. Un giudizio severo, che riguarda non solo la Calabria, ma a tutta l’Italia, eccezion fatta forse per Milano e dintorni. Proprio per questo, credo che con visione e consapevolezza si possa ripartire anche dal Sud, individuare politiche di indirizzo e occasioni di rilancio. Dobbiamo tornare a valorizzare le nostre radici millenarie, la nostra storia unica, le identità paesaggistiche e storiche: e dobbiamo farlo per resistere in un mercato dove tutti, anche i cinesi, hanno iniziato a ragionare in termini di qualità. Solo partendo dalle radici, possiamo fare la differenza. E per questo dico: rimaniamo, lottiamo, e smettiamo di piangerci addosso».